La job satisfaction (sostengono i massimi ricercatori in materia, come Cropanzano, Hulin e altri) è una valutazione sul grado di soddisfazione lavorativa di un dipendente che comprende sia la componente affettiva sia la componente cognitiva. La soddisfazione lavorativa sarebbe “un piacevole o positivo stato emotivo dato da una valutazione del proprio lavoro o delle esperienze lavorative”.
L’appeal
Manca personale. Le compagnie aeree cancellano voli e accumulano ritardi perché non riescono a completare gli equipaggi o a turnare i dipendenti di terra alle postazioni (dopo averne lasciati a casa a centinaia durante il lockdown). Nel turismo mancano bagnini, baristi, camerieri, lavapiatti. Perfino i parchi divertimento sono in affanno: Gardaland chiude anzitempo 13 attrazioni perché nell’orario serale non ha il personale necessario. Intanto si critica il recruiting annunciato da alcune associazioni di albergatori, intenzionate a rivolgersi ad agenzie interinali straniere o ad andare di persona in Albania, Polonia, Romania e altri Paesi, alla ricerca degli addetti mancanti (per l’industria del turismo si parla di oltre 350 mila). Però, considerando la job satisfaction che si diceva, è difficile immaginare l’appeal per una figura professionale basic, quale ad esempio un/a lavapiatti o un/a addetto/a alla pulizia ai piani, se non quello derivante dalla retribuzione del tempo d’impegno. E se questa non fa né appeal né soddisfazione, il personale emigra altrove. Specie se le condizioni degli alloggi proposti per i lavoratori comandati in strutture lontane non risultano sufficientemente decorose. Si torna quindi a parlare delle bustine paga, quelle che non evitano di finire nelle statistiche sulle povertà, come nell’ultimo report Istat: una grandissima fetta di poveri non è data da senza lavoro, ma di chi ce l’ha, però mal retribuito. Da qui la proposta di inserire l’ammontare della busta paga negli annunci di offerta lavoro, come succede in parecchi centri urbani degli Usa, dove si è adottata la trasparenza salariale.
Lavori e lavoretti
Già negli anni pre-pandemia si registravano mestieri che nessuno voleva più fare. Nell’apposito elenco stilato nel 2019 da QuiFinanza erano inseriti, ad esempio e a volte a sorpresa, il falegname, il panettiere, il fabbro, il cameriere, il cuoco, ma anche il sommozzatore professionista e l’addetto alle linee elettriche ad alta tensione (questi ultimi due ben pagati ma ampiamente disertati). Si tratta quasi sempre di lavori che non richiedono particolari percorsi formativi, nessun diploma: per camerieri e cuochi generici si parlava comunemente di “lavoretti”, intesi come occupazioni temporanee, magari sottopagate ma allo stesso tempo, come si dice, “liquide”, cioè fluttuanti, occasionali, utili per guadagnare qualcosa nell’immediato. Non “lavori” veri e propri, insomma. Lo sapevano i lavoratori e lo sapevano più che bene i datori, che hanno a lungo sfruttato queste situazioni. Nella moderna precarietà diffusa, però, quella che non consente grandi progetti di vita, tra tempo determinato e contratti di somministrazione, i lavoretti finiscono per somigliare sempre più a lavori, con tutte le ambizioni e le ricerche di soddisfazioni relative. Non si tratta, quindi, di ricostruire un appeal perduto dall’industria turistica verso i potenziali addetti, ma di costruirlo da principio, sulla base di nuovi rapporti, di trattamento non solo economico, ma anche umano, di rispetto e condivisione.
Il fattore generazionale
Non si sottolineerà mai abbastanza la denatalità (definita “il virus del terzo millennio”) e le conseguenze che ne derivano. Restando nel turismo, dal 2012 al 2019 le imprese erano passate da 308 mila a 335 mila, mentre i giovani in età lavorativa erano scesi da 13,9 a 12,9 milioni. Più aziende, insomma, ma meno, molti meno possibili addetti, soprattutto stagionali. Qualche dato. Nel 2020 si sono registrati all’anagrafe 15 mila nati in meno rispetto all’anno precedente: circa 1,24 figli per donna, e in nessuna provincia d’Italia oggi si raggiungono i 2 figli per donna (ma è dal 1975 che non si registra un tasso di fecondità superiore a 2). L’Italia è il primo Paese dove gli over 65 hanno superato gli under 15. Dai recenti Stati generali della natalità l’ultimo allarme: se non si inverte la rotta nel 2050 ci saranno 5 milioni di italiani in meno, e due di questi saranno giovani. Il quotidiano di Bergamo riporta un caso emblematico: una storica azienda leader per i prodotti per l’infanzia ha presentato istanza di fallimento perché “chiusa per calo delle nascite”, niente più culle e passeggini. Insomma, in questo inverno demografico i giovani già oggi sono molti meno di quanti servirebbero, e non solo nel turismo, ma praticamente in tutte le attività produttive. Chiaro che i pochi che ci sono, scelgono…
Non solo turismo
Mancano saldatori, magazzinieri, serramentisti, elettricisti, idraulici. Per non dire della sanità, dove mancano infermieri, medici ospedalieri, medici di famiglia. A Milano, lo scorso aprile, su 31 mila figure ricercate dalle aziende, quattro su dieci sono rimaste inevase, nel 23% dei casi per mancanza di candidati, nel 13% perché questi non hanno le competenze richieste (si riapre il divario scuola-lavoro). E nella sanità, sempre a Milano, su 100 medici cercati se ne sono trovati 3. Tre. Situazione analoga nell’edilizia: si trovano tre addetti ogni dieci cercati. Restano vuote anche le caselle per impiegati (26%) e professionisti nel commercio. E via via per tutti i segmenti della manifattura e dei servizi.
Tutto e subito e senza fatica
È da poco ripartito il progetto nazionale “Ci sto? Affare fatica” rivolto ai ragazzi tra i 14 e i 19 anni, che intende recuperare il contributo educativo e formativo dell’impegno e della fatica, stimolando gli adolescenti a valorizzare al meglio il tempo estivo attraverso attività concrete di volontariato. E si sa che sul volontariato sono ben pochi a battere i primati italiani. Il discorso però cambia quando si parla di prestazione d’opera retribuita, quando ai colloqui capita di sentire il candidato domandare immediatamente se bisognerà lavorare nei weekend. Insieme al mantra dei datori (non si trova personale), insieme alla mancanza delle indispensabili attrezzature formative di molti ragazzi (le croniche distanze tra scuola e lavoro), va aggiunta dunque anche una poca disponibilità al sacrificio di molti, spesso frutto di indoli, ma anche di abitudini socio-familiari tendenti a supportare oltremisura la crescita dei giovani. E va anche considerato l'”he takes too much for granted”, cioè quello che crede che tutto gli sia dovuto, una fisionomia poco indagata, ma ben presente nell’insieme di quelli che non intendono faticare e rinunciare agli stili abituali, soprattutto in periodi in cui il futuro sembra incerto e le variabili (epidemie, guerre) imponderabili.
Come si vede, la miscela è frutto di molte benzine (andrebbero aggiunti anche i sussidi, come il Reddito di cittadinanza, ma se ne parla perfino troppo, accreditandogli eccessive responsabilità), che imporrebbero decisi cambi di rotta, da una politica salariale più accattivante ad una revisione del cuneo fiscale, ma anche una nuova sincronizzazione tra le richieste del mondo del lavoro e i percorsi formativi dei ragazzi, e magari una diversa “politica familiare” che abitui alla conquista di ogni cosa solo tramite l’impegno, la disponibilità, la fatica.
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