L’Itis che dirigo, ad Arezzo, è una scuola “tradizionalista”, selettiva e disciplinata e, proprio per queste sue caratteristiche, prestigiosa. Si tratta di un istituto che compete con i licei cittadini, spesso superandoli, sul piano delle iscrizioni, anche quando il trend nazionale è favorevole a questi ultimi.
Nonostante queste caratteristiche, l’ultimo giorno di scuola non è stato facile. La maggioranza dei ragazzi ha dato molto e i compiti in classe con le interrogazioni sono stati vorticosi, soprattutto negli ultimi mesi. Alunni e docenti sapevano di dover colmare il gap di apprendimento causato dalla pandemia e il lavoro didattico è stato notevole. Forse anche per questo, l’ultimo giorno di scuola è stato un momento liberatorio.
Durante la pausa delle 11, i ragazzi si sono ritrovati, senza che vi fosse un disegno prestabilito, nella spaziosa hall della scuola e lì, quella che usualmente è una folla solitaria di giovani, in prossimità fisica gli uni con gli altri, ma distinti e separati, immersi ciascuno nelle proprie connessioni, quella folla improvvisamente ha assunto un volto collettivo. Si è passati dalle connessioni telematiche a quelle fisiche e sociali. È stato senz’altro un momento euforico, più pertinente a un concerto rock che non ad una scuola, che, come la nostra, non è priva di una certa austerità. Così, il rito dei salti e delle braccia, protese in alto a immortalare la scena con gli smartphone, si è repentinamente scatenato. Tutto ciò con un gran vocio.
Per qualche istante, ho temuto che non vi fosse più controllo su quanto stava accadendo. Cosa succede, mi sono chiesto, in questo ultimo giorno di scuola, che fra l’altro precede il mio pensionamento di preside, a fine agosto? Poi ho visto che, nonostante i salti e gli ondeggiamenti della folla di giovani assiepata nell’ingresso della scuola, nulla accadeva di pericoloso e nessuno dei ragazzi esorbitava da quello che appariva semplicemente come un momento di gioia di gruppo.
Spesso ho avuto la sensazione che alcuni momenti collettivi dei giovani siano, in realtà, dei copioni recitati a favore dei social, che esibiscono i video dei corpi e traslano le relazionalità fisiche nel mondo virtuale. Quest’ultimo, cui sono abituati fin da piccoli, pare essere rassicurante, molto più di quello delle relazioni “faccia a faccia”, che li espone al rifiuto. Il diritto di esistere viene indebitamente commisurato con il numero dei “like” e delle visualizzazioni.
Tuttavia, vi sono anche dei momenti in cui la duplice appartenenza dei giovani al mondo fisico e a quello virtuale si ricompone unitariamente. Momenti di entusiasmo (termine che, nella lingua greca antica, evoca l’essere pervasi da un dio), che recuperano le istanze profonde di socialità rimosse dalla pandemia.
Kae Tempest, un’artista e poetessa inglese, li descrive semplicemente come connessioni, che hanno, tuttavia, un carattere sociale anziché una connotazione mediatica. Penso che l’ultimo giorno di scuola dei miei alunni (e anche mio) abbia avuto a che fare con la creatività, perché la gioia per la fine della scuola avrebbe potuto pericolosamente approssimarsi a comportamenti smodati, che però non hanno avuto luogo. L’ultimo giorno, che in qualche modo comprende sempre la rottura delle tradizionali routine, si è attuato creativamente, facendo in modo che l’espressione della gioia non fosse foriera di pericoli.
Tempest ricorda che il Libro Rosso di Jung distingue tra lo spirito dei tempi e lo spirito del profondo. Il primo organizza la nostra vita in narrazioni accettabili e riguarda gli avvenimenti correnti, mentre lo spirito del profondo coglie la parte meno visibile del nostro essere, quella dell’inconscio e degli archetipi.
Questa duplicità, secondo me, non riguarda solo gli individui, che devono conciliare i due spiriti o pagare lo scotto del loro disallineamento, ma comprende anche i soggetti collettivi, come i giovani. Forse l’ultimo giorno di scuola ha significato una ricomposizione tra la stanchezza dei tempi e l’istanza più profonda di recupero della socialità, venuta meno con il lockdown.
Quelli che ci attendono sono tempi di riconnessione e di desiderio di pienezza. Tutti quanti siamo stanchi di frammentazioni e separazioni: non siamo fatti per una vita dispersa nelle pratiche individualistiche. Sta alle scuole cogliere e sviluppare una tale prospettiva.
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