Il Pnrr prevede la destinazione di circa il 40% delle risorse previste dal Piano per l’Italia al Mezzogiorno, per un importo pari a circa 82 miliardi, ma il Sud è pronto per raccogliere questa sfida mettendo in campo quelle capacità progettuali che in passato sono mancate? «La risposta tendenzialmente è un po’ negativa – dice Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con il Sud -, mediamente gli enti locali del Sud, che sono i destinatari di molti degli interventi previsti dal Pnrr, non sono pronti. I prossimi mesi saranno decisivi». Il fatto che nel Mezzogiorno si registrino maggiori difficoltà nella gestione degli iter burocratici necessari per partecipare ai bandi del Pnrr, rischia di portare alla situazione paradossale per cui non viene presentato un numero di progetti sufficiente ad allocare il 40% degli investimenti previsti. Per Borgomeo è poi strategico che nella progettazione vengano concretamente coinvolte le realtà del no profit, andando oltre le enunciazioni di principio. «Per ora – sottolinea – siamo solo ai titoli».
Il rischio che si ripeta un copione già visto in passato con l’incapacità del Sud di accedere ai fondi europei è quindi reale?
A ben vedere nello stesso Pnrr c’è una specie di cortocircuito perché uno degli obiettivi dichiarati è il rafforzamento della Pubblica amministrazione, quella stessa Pubblica amministrazione alla quale si chiede di spendere bene e rapidamente le risorse del piano. Penso che in ogni caso ci saranno importanti risorse per il Mezzogiorno. La determinazione della ministra Carfagna a garantire i flussi immaginati è molto forte, c’è un presidio molto deciso. Naturalmente questo può non bastare nel senso che c’è una questione di qualità dei progetti e poi di effettiva capacità di spesa, che meriterebbe qualche supplemento di riflessione e di iniziativa.
In che senso?
Il Pnrr è così generoso con l’Italia proprio perché la Commissione europea ha ritenuto che lo squilibrio territoriale del nostro sviluppo, cioè il problema del Sud, sia una questione che riguarda tutta l’Europa. Bruxelles non ha buttato dentro tra gli altri anche l’obiettivo di recuperare un po’ di divario del Sud. No, l’ha indicato come obiettivo centrale. Parlano di diseguaglianze territoriali, di genere e di generazione e, quindi, bisognerebbe forse concentrarci un po’ di più.
Vuol dire che non basta l’allocazione dei fondi, ma che servirebbe una correzione di rotta nella loro gestione?
Se pensiamo a 72 anni di intervento straordinario con la fondazione della Cassa del Mezzogiorno nel 1950, vediamo che il dibattito è stato sempre prevalentemente sulla quantità di risorse stanziate. Alcuni sostenevano che erano troppe, altri troppo poche, per altri ancora erano giuste ma diventavano poi inutili perché le istituzioni meridionali non erano in grado di spenderle. Tutto è stato giocato sempre sulla quantità. Ora le politiche di sviluppo si fanno anche valutando la qualità degli interventi e dei progetti che vengono sostenuti. Forse sarà solo una questione personale, ma provo un certo disagio a continuare nella logica che il problema sia spendere, laddove dovrebbe invece essere spendere bene.
C’è chi sostiene che quello del Pnrr sia una sorta di “ultimo treno” che passa per il Sud. Non possiamo permetterci di perderlo. Condivide?
È stato detto anche in passato, poi di “treni” ne sono passati altri. Questa cultura dell’evento risolutivo può essere un po’ pericolosa. Però effettivamente siamo di fronte a una grande occasione.
Sta rilevando una maggiore capacità reattiva della Pubblica amministrazione meridionale rispetto al passato?
Ci sono state iniziative annunciate, e in parte realizzate, come quelle del ministro Brunetta per rafforzare la Pubblica amministrazione, è previsto un intervento della Cassa depositi e prestiti a sostegno dei piccoli comuni… Vediamo se funzionano, altrimenti siamo come prima. Comunque fra sei-sette mesi saremo in grado di capire quali saranno le risorse del Pnrr che si riuscirà a spendere in tempo. Tutto lascia immaginare che non ce la caveremo chiedendo una proroga, probabilmente sarà il momento in cui si potranno ritarare gli interventi che sono invece più pronti per essere attuati.
Lei ha sempre sottolineato la rilevanza strategica del no profit nell’ambito di una vera politica di sviluppo. Che spazio c’è per questo nel Pnrr?
Prima c’è una questione di fondo da chiarire. Sulla base delle esperienze fatte quando si parla di sociale e di organizzazioni del Terzo settore dobbiamo capire che non si tratta solo di meritorie iniziative che combattono diseguaglianze, ingiustizie, diritti negati, ma di realtà che costituiscono la premessa dello sviluppo anche economico. Gli economisti dicono che una precondizione è il capitale sociale. Non è sufficiente dire che bisogna dare un occhio anche a queste realtà. Il paradigma va capovolto: mentre prima eravamo abituati a pensare che se c’è crescita economica ci sono le risorse per occuparsi del sociale, adesso non è più così. Il sociale è al primo posto, basta guardare i dati sulla povertà, sulla scuola, sulla violenza tra gli adolescenti, il tema dei quartieri periferici. Occorre avere la consapevolezza che se non si risolvono tali questioni è inutile chiacchierare di sviluppo economico.
E venendo al no profit nel Pnrr?
C’è una novità clamorosa, da quei bei palazzi di tecnocrati di Bruxelles è uscito un documento che si pone l’obiettivo di superare le diseguaglianze. Non avevo mai letto una cosa così, è l’obiettivo del Pnrr. Ci sono una serie di affermazioni di principio, di scelte, pensiamo per esempio alla “missione 5” del Piano, che danno un grande spazio al terzo settore. L’attuazione pratica lascia invece a desiderare. Per ora il terzo settore è solo nei titoli. Se si ha la pazienza di guardarci dentro, in tutta la missione 5 non viene mai citato il Terzo settore, è solamente menzionato il volontariato quando si tratta di housing sociale temporaneo. Un esempio: il Pnrr quando parla dell’articolazione territoriale dell’offerta socio-sanitaria utilizza questo termine straordinario di “Case della comunità”, che è quello che tante volte anche noi abbiamo chiesto. Però poi se si va a vedere nel concreto quanto sta succedendo, la “comunità” non è prevista, è solo un’articolazione territoriale dell’offerta pubblica sanitaria, manca del tutto il terzo settore che può garantire il socio sanitario.
Insomma, per ora si sono fermati ai titoli…
Esatto, non è ironico, perché è già un risultato essere nei titoli. Dieci anni fa nessuno avrebbe potuto immaginarlo. C’è quindi ancora molto da lavorare. Le faccio un secondo esempio: la nostra delusione per il bando da 300 milioni di euro del ministro per il Sud sui beni confiscati alle mafie, la più grande iniziativa della storia della Repubblica sui beni confiscati. Il bando prevede che vengano finanziate le ristrutturazioni fisiche, punto. Un grave errore che abbiamo già visto con il Pon Sicurezza, il programma operativo che ha finanziato la ristrutturazione di tanti beni confiscati che sono rimasti poi inutilizzati. Cosa deve pensare l’opinione pubblica che vede questi immobili ristrutturati con i soldi pubblici che rimangono poi inutilizzati? Ecco un’altra dimostrazione di come ai titoli e alle intenzioni, per adesso, spesso non corrisponda ancora la realtà delle scelte.
C’è possibilità di correggere la rotta?
Bisogna insistere, occorre che questa scelta che è indicata nel Pnrr della co-programmazione e della co-progettazione da parte dei soggetti del Terzo settore con gli enti locali diventi prassi, venga applicata il più possibile.
(Piergiorgio Chiarini)
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