Il 7 giugno scorso il Re del Belgio, Filippo, è atterrato a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, per uno “storico” viaggio di sei giorni nell’ex colonia, teatro prima e dopo l’indipendenza di uno dei più violenti sfruttamenti coloniali.
Re Filippo ha ribadito “le scuse” per il trattamento inferto dai suoi avi al Paese e, a mo’ di ammenda, ha donato a Kinshasa un dente di Patrice Lumumba, l’eroe della lotta anticoloniale assassinato da separatisti congolesi e mercenari belgi nel 1961: il suo corpo fu disciolto nell’acido, ma il dente fu tenuto come trofeo da uno dei suoi assassini, un agente di polizia belga.
“Non dimentichiamo il passato ma guardiamo al futuro”, ha detto durante la visita il primo ministro belga Alexander De Croo, che accompagnava il Re nella visita. E giù una lunga lista di possibili contratti per sottrarre alla Cina una parte delle concessioni minerarie del Paese, il più ricco di materie prime, dal litio al cobalto, decisive per la transizione energetica e lo sviluppo dell’auto elettrica.
Il passato coloniale, però, pesa. Non sarà facile superare il demone del colonialismo e scalzare i cinesi. “Nel mondo occidentale prevale un’idea della Cina in Africa non molto positiva, si parla di neo-colonialismo attuato attraverso corruzione, accordi opachi e con l’erogazione di finanziamenti come mezzo per guidare le politiche locali secondo i desideri di Pechino”, nota Matteo Sernetti, imprenditore e acuto osservatore della realtà africana. “Ma – aggiunge – in Africa però la percezione è diversa, molti non ritengono che le nazioni africane siano vittime di una seconda colonizzazione. Anche per un investitore europeo – conclude – la presenza cinese in Africa è sicuramente un grande vantaggio perché si troverà a disposizione strade, ponti, energia, telecomunicazioni e ospedali difficilmente immaginabili 20 anni fa”.
Il richiamo del soft power occidentale, insomma, è sempre più debole. Se ne è accorto lo stesso Zelensky che nei giorni scorsi ha chiesto il sostegno dei leader africani per convincere Putin a levare l’embargo sul frumento che minaccia di gettare nella fame buona parte del continente nero. Per tutta risposta il Presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat si è limitato ad augurarsi la fine del conflitto, senza prendere posizione tra i contendenti. Come del resto ha fatto all’Onu la maggior parte dei Paesi africani. Il numero uno del Senegal, Macky Sall, Presidente di turno dell’Unione Africana, non ha esitato a rivolgere un augurio al “caro amico Putin”.
Il copione non è molto diverso in America Latina. Il mese scorso gli Usa sono stati messi sotto accusa al vertice dei Paesi del Continente per l’embargo nei confronti di Venezuela e Cuba oltre che per la politica di chiusura delle frontiere. E dopo la vittoria di Boric in Cile, anche in Colombia è stato eletto un Presidente di estrema sinistra, l’ex guerrigliero Gustavo Petro.
In questa cornice la riunione virtuale dei Brics (Cina, Russia, Sud Africa e Brasile) si è rivelata una formidabile occasione per Vladimir Putin per dimostrare che la Russia è tutt’altro che isolata a livello internazionale. Al suo fianco c’è la Cina che, senza troppo esporsi, può ergersi a paladina della globalizzazione contro le sanzioni. Intanto Pechino, così come l’India, approfitta dell’embargo europeo sul petrolio di Mosca per fare il pieno con un forte sconto, il trenta per cento circa, rispetto all’Europa. Modi, in particolare, ha evitato qualsiasi riferimento all’Ucraina, affermando però il ruolo «importante» dei Brics come «motore della crescita globale».
Certo, non si esaurisce qui il tema dell’efficacia delle sanzioni contro l’economia russa, in caduta libera in molti settori-chiave. Ma quel che preme sottolineare è semmai la caduta d’appeal dell’Occidente, ovvero di un modello di crescita economica che, con l’eccezione del Far East e della Cina, stenta a distribuire ricchezza nell’economia globale. E, quel che è peggio, a combinare crescita e democrazia. Senza offrire soluzioni convincenti in materia climatica e ambientale, accettando che si creino squilibri insostenibili nei prezzi di alcune fondamentali derrate alimentari, “con conseguenze destabilizzanti per intere regioni del pianeta anche a noi vicine”, come ha denunciato il Presidente Sergio Mattarella.
L’Occidente rischia di perdere, ancor prima dell’egemonia militare o politica, la leadership culturale. Non sarebbe un gran male se fosse alle porte una civiltà più rispettosa in materia dei diritti politici e civili dell’individuo. Ahimè, tra campi di concentramento e controlli via intelligenza artificiale, l’alternativa assomiglia sempre più al mondo descritto da George Orwell in “1984”, oggi, segnale di resistenza, il libro più venduto in Russia. In questa cornice dare una mano ai più deboli, qui e altrove, è la più efficace forma di difesa del nostro sistema di vita, invertendo un circuito perverso: 50 anni fa i Paesi industrializzati si erano impegnati a destinare alla cooperazione internazionale un aiuto pubblico pari almeno allo 0,70% del reddito nazionale lordo. Ne abbiamo dato lo 0,28% Non ce la caviamo con un dente di Lumumba.
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