Ingrida Symonite è sconosciuta a tutti in Europa. Eppure la Premier lituana – una delle “quote rosa” avvitate in serie nelle cancellerie dell’Europa baltica – sta conducendo l’Ue alla guerra contro la Russia. È lei (che però sostiene il contrario) ad aver deciso di frenare il transito delle merci verso “l’enclave” russa di Kaliningrad, alla base della pesante contro-escalation avviata da Mosca via Bielorussia.
A quanto risulta il Governo di Vilnius ha agito senza consultazione formale con le autorità Ue e con gli altri 25 Paesi membri. Symonite, peraltro, si appella alla recente decisione del Consiglio Ue di varare un quarto pacchetto di sanzioni “ucraine” contro il Cremlino. In esse – in effetti – si inaspriscono le misure di controllo volte sugli scambi commerciali alla frontiera Ue-Russia. Bruxelles (dove al timone c’è la “quota rosa” Ursula von der Leyen) ha subito precisato che la chiusura di Kaliningrad è uno sviluppo “non intenzionale” delle scelte Ue, anche se non ha sconfessato Vilnius. Fonti della Commissione hanno d’altronde confermato di “essere in contatto con la Lituania e al lavoro per evitare un’escalation”. Che tuttavia, nel frattempo, è già maturata: Mosca ha annunciato di considerare l’incidente di Kaliningrad “un atto di guerra”, verso il quale non esclude “conseguenze pratiche”. La prima è stata concretizzata nella nuova fornitura di missili alla Bielorussia.
Nel frattempo, molti interrogativi restano senza risposta. Sono sostanziali i dubbi di una forzatura strumentale da parte di settori della Nato o dell’Amministrazione Usa (molto sotto pressione in casa). L’Alleanza ha fin dal primo giorno nel Segretario generale – il norvegese Jens Stoltenberg, in proroga – il portavoce della “guerra lunga” attorno all’Ucraina: certamente non sgradita al Pentagono e al complesso militar-industriale d’Oltre Atlantico, dopo il 2021 “horribilis” in Afghanistan. E gli States restano di fatto – nel dopo-1989 – “azionisti di maggioranza” delle tre repubbliche baltiche: che sono il vero avamposto Nato incuneato alla frontiera russa. Sono Lettonia, Estonia e Lituania ad aver incubato il modello di sviluppo hi-tech – alimentato da investimenti Usa – che la Nato a trazione americana ha impiantato in Ucraina: fino al 24 febbraio scorso.
Kaliningrad è chiusa a ovest dalla Polonia: già tragicamente nota per essere stata teatro dell’inizio della Seconda guerra mondiale in un incidente attorno al corridoio di Danzica. Bene, la Polonia è passata nell’arco di settimane – almeno nella “mediasfera” globale – dal ruolo di “bad country” nell’Ue – sotto formale accusa per violazione di principi democratici e diritti umani – all’immagine iconica di nazione-modello della Resistenza Occidentale. Questo per aver ospitato centinaia di migliaia di profughi ucraini e soprattutto per funzionare da retrovia operativa all’ingente impegno Nato a supporto delle forze armate e paramilitari ucraine nel Donbass. Come nelle repubbliche baltiche, il sostegno politico-finanziario Usa è ingente: e non per caso Mateusz Morawiecki è un altro megafono della “guerra fino alla vittoria” dichiarata del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
È un passaggio che – sempre su un piano politico-mediatico – sembra aver bruscamente infranto l’asse fra Varsavia e Budapest all’interno del cosiddetto “gruppo di Visegrad”: il coordinamento fra Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca che nell’ultimo decennio è emerso come “minoranza” politico-geografica nell’Ue, accomunata da un humus politico conservatore e filoamericano. Il premier magiaro Viktor Orban sembra ora rimasto solo come oppositore interno del bellicismo economico-militare imposto dagli Usa all’Ue. Ma non tutto sembra tornare se una testata esemplarmente global-occidentale come il Financial Times ha proposto fra i suoi abbonati un sondaggio.
“I leader Ue dovrebbero dare via libera ai fondi Recovery per la Polonia?”: più della metà dei partecipanti ha detto “no”, solo il 27% si è detto a favore, mentre il 19% ha espresso una posizione neutrale. Quindi, lo schieramento polacco “senza se e senza ma” a favore della guerra occidentale contro la Russia in difesa dell’Ucraina non è affatto un argomento decisivo per il campione di classe dirigente internazionale che la readership di FT rappresenta. La Polonia “guerrafondaia” non è stata riabilitata dalla visita “al fronte” del Presidente Usa Joe Biden. Resta invece a rischio “democratura”, com’è stata formalmente giudicata dalla Commissione Ue – al pari dell’Ungheria – nei mesi precedenti l’aggressione russa dell’Ucraina. È un Paese su cui – a posteriori neppure così lunghi – l’Ue s’interroga sulla reale “ammissibilità” all’Europa di Roma e Maastricht: esattamente come ha ritenuto ancora insufficienti gli standard della democrazia “oligarchica” ucraina, all’atto della concessione dello status di “Paese candidato” all’ingresso nell’Unione.
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