C’è un tarlo che attanaglia le democrazie occidentali: è la disaffezione a quella manifestazione principe della democrazia che sono i procedimenti elettorali. Una gran parte della popolazione le ignora, non le capisce, le snobba, fa altro. Giustamente si dice in giro che occorre prendere atto di questo stato di cose e aprire una discussione su questo tema, ben noto agli studiosi dei processi democratici ma forse con aspetti che vanno scandagliati. C’è, senz’altro, qualcosa di più da capire senza eccedere in discorsi, più o meno tragici o sconfortati.
Partendo dai casi più recenti e, in particolare dal referendum sulla giustizia, vi è da un lato un uso di difficile comprensione dello strumento loro proposto da parte degli elettori, i quali non comprendono come mai spetti a loro prendere decisioni che dovrebbe prendere il Parlamento. Si tratta di una decisione a priori, quasi irriflessa, non metabolizzata: semplicemente non si va a votare. Maiora premunt.
Generazioni più avanti degli anni, con animo più libero, sanno che la democrazia è stata conquistata con sacrifici e quindi “sentono” che è un dovere civico andare a votare: ma questo sentire ha i giorni contati e non fa più presa sul resto della società democratica. Si può provare a toccare questo tasto ma, con sorpresa, si è costretti a prendere atto che il non andare a votare in alcuni casi sembra essere diventato un modo – uno dei tanti – per manifestare il proprio dissenso. Un paradosso, evidentemente: se si vuole manifestare dissenso si può andare a votare, votare questo o quel candidato, votare scheda bianca, o no all’abrogazione o annullare la scheda. Eppure questa manifestazione “tradizionale” di dissenso non interessa più, catalogata senza troppe riflessioni come una fatica inutile.
Ma tra l’inutilità della manifestazione “attiva” di un dissenso e la disaffezione al voto il passo è brevissimo: in un passato non lontano si andava a votare per quei partiti che si proponevano come portavoci del dissenso, anche radicale, verso il sistema istituzionale. Ora che il sistema stesso li ha fagocitati non resta che ignorare l’esistenza dei processi elettorali, girare la faccia, restare a casa.
Dunque: il sistema è inceppato. Altri sono i problemi che la società percepisce come gravi e, altrettanto drammaticamente, percepisce come sembri inutile elaborare tentativi di risposta. Tutto inutile, anche progettare alternative. A dare risposta ci penserà il governo, l’Europa, o qualcun altro che non siamo noi.
E la politica che fa? Banalizza tutto, o minimizza: per votare al referendum e alle Comunali c’è solo un giorno, e per di più a giugno inoltrato con la gente già in vacanza, per cambiare i governi non servono elezioni, la crisi che si declina in vari modi dal 2008 ad oggi copre tutto con una coltre di silenzio, dove “solo le emozioni contano”, ma si tratti di emozioni: niente che possa durare.
Eppure le tornate elettorali sono in vista, le elezioni regionali e le elezioni politiche, dopo queste amministrative parziali e non troppo enfatizzate, con una partecipazione ai ballottaggi assolutamente insignificante. Per provare, almeno, ad invertire la rotta, sarebbe meglio non aspettare fino all’ultimo.
I giochi sono già aperti. Bisogna almeno provare a capire da che parte si andrà e immaginare scelte elettorali, attivare qualche momento di riflessione, con molta prosa ma anche con qualche cenno sul senso delle istituzioni. Tra poco sarà già troppo tardi.
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