Il recente omicidio della piccola Elena Del Pozzo a Mascalucia (Catania) ha lasciato le nostre coscienze sgomente. Il rimpallo sui media e sui social è stato per giorni spasmodico: tutti alla ricerca del perché davanti a tale crudeltà perpetrata da una donna-madre. Dalla mamma di Elena. Psicologi, criminologi e gli stessi giornalisti, poi, hanno fatto appello alla sindrome di Medea per etichettare il comportamento di Martina Patti. Ma è proprio così? Ci si può appellare il più delle volte all’eroina greca Medea per spiegare quanto accade nell’abisso dell’animo di alcune donne, quando arrivano ad uccidere i propri figli? Ci aiuta a rispondere lo stesso drammaturgo dell’omonima tragedia greca, Euripide.
“Nessuno mi creda una donna ordinaria e debole né mite, ma di tutt’altra indole, violenta con i nemici e benevola con gli amici” (vv. 806-810).
Fin da subito il tragediografo descrive con tratti netti la sua protagonista. Lei è diversa da tutti in scena, ma è soprattutto diversa da tutte. In una società maschile e maschilista come quella dell’antica Grecia, una maga, una regina si erge in scena con tutta la sua forza espressiva in modo strabordante: non c’è ambito, faccenda domestica, status che riesca a imbrigliarla nella rete delle abitudini assunte dalle donne nel IV a.C. Ecco come descrive lei stessa la sorte delle mogli: “Fra tutti gli esseri, quanti sono vivi e hanno raziocinio, noi donne siamo la creatura più tribolata: noi che innanzitutto dobbiamo comprare un marito con gran dispendio di ricchezze, e prenderlo come padrone del corpo, e questo è un male ancora più doloroso del male” (vv. 230-234). La vita delle donne è un male, come si sottolinea nei versi con la ripetizione del termine κακοῦ/ κακόν/ κακῶν, perché legata alla cieca sorte degli uomini. Ma… “davvero io sono diversa in molti aspetti da molti tra i mortali” (vv. 579), dice Medea al fedifrago Giasone.
Le seconde nozze, che lui intende celebrare con la figlia del re di Corinto, spezzano in lei l’ultima obbedienza alle convenzioni sociali, quelle per cui nel marito c’è tutto: ogni bene di vita e ogni giustificazione delle inique azioni fatte dalla protagonista per amore suo. No. Non è più così! Giasone, scegliendo di comodo una vita con una stabilità economica e sociale assicurata dalla nuova unione, dissolve il patto nuziale precedentemente sancito con Medea di vivere una vita felice. “Non voglio avere una dolorosa ‘vita felice’ né un benessere che mi roda l’animo” (vv. 598-599): questo è l’urlo dolorante davanti alla maschera del marito che si presenta al suo cospetto come un giusto, ma senza più stima nella sua donna. Rinnegare tutto per un futuro migliore per i suoi figli e per la sua prima moglie; questa la convinzione del giusto Giasone. Neanche il tempo, secondo il personaggio, avrebbe potuto assicurargli una benevola sorte in terra greca con una moglie maga e barbara. Solo sguardi diffidenti e maldicenze. La rottura a questo punto è totale: Medea lavora al suo piano di vendetta, guardando all’antica gloria della sua casata discendente dal Sole, per il rispetto che si merita. L’unico “tutto” che le rimane. La regina, potremmo dire, segue la dinamica del proprio ego. “O del tutto infelice per il mio narcisismo”, dirà la stessa Medea al v. 1028. Maledetti me e il mio amor proprio, αὐθαδίας! Potremmo dire noi.
Via dunque dalle convenzioni a cui sono vocate le donne: devozione alla famiglia, al marito e cura amorevole dei propri figli: “preferirei stare vicino allo scudo tre volte che partorire una sola volta”.Il culmine del suo amor proprio è un viscerale odio per i suoi stessi legami e l’uccisione dei suoi figli ne è un segno. Per questa metamorfosi non occorre più avere un cuore, come ammetterà lei stessa. Solo un attimo di esitazione davanti al sorriso innocente dei figli e poi, la morte. Più grave di questo? La derisione dei nemici, e Medea non può permetterlo per quella dinamica del proprio ego. E così sul carro del Sole, nell’esodo dell’opera, fuggirà invisa agli uomini e agli dei, trascinando con sé, a mo’ di sipario, la scena e quanto contiene.
La rottura dei legami sociali e civili, a vantaggio del proprio ego, che caratterizza l’azione di Medea è, quindi, decisamente distante da quanto è accaduto nella tragedia reale di Mascalucia. Di sicuro in un ideale parallelo, le due donne, Medea e Martina, non sono riuscite a colmare la distanza che c’è tra la dinamica del proprio ego e la dinamica del tu, distanza siderale tra questi due universi, in cui a sacrificarsi, a “dare la vita” o a ri-partorire è proprio la donna-madre che si risolve nel dono agli altri, nel dono ai propri figli. Solo esempi in carne ed ossa di una nuova maternità possono e potranno avvicinare i due universi, squarciare l’abisso di buio in cui piomba chi sceglie l’altra dinamica, quella dell’ego, e aprire un varco di speranza e di redenzione anche nel futuro di Martina. Questa possibilità già esiste vicino a noi!
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