C’è qualcosa di scientifico nel modo in cui Mario Draghi cerca lo scontro diretto con il Cremlino. Fra tutti i leader presenti al G7 in Baviera, solo lui ha sentito il bisogno di mettere pubblicamente in discussione la presenza di Vladimir Putin al prossimo G20 in Indonesia. Nessun altro. E di politici che certo non hanno lesinato accuse ed epiteti al Presidente russo, il simposio tedesco ne era ben fornito. Né Boris Johnson, né Joe Biden però hanno toccato l’argomento. Non foss’altro per l’arco temporale che ci divide da quell’evento, quasi sei mesi, durante i quali potrebbe accadere di tutto. E di più. Quindi, un ricorso alla mera, sana prudenza avrebbe spinto chiunque a soprassedere. Invece no, Mario Draghi sembrava un missile a ricerca di calore. E, nemmeno a dirlo, ha ottenuto il risultato: il portavoce del Cremlino, Dimitry Peskov, ha reagito con durezza, sottolineando come non sia certo il presidente del Consiglio italiano a decidere la lista delle presenze.
Apparentemente, schermaglie. Ma che vanno a inserirsi, in maniera più cercata che meramente gratuita, in un contesto di freddezza diplomatica fra Roma e Mosca che non si registrò mai nemmeno durante la Guerra Fredda. Quando esistevano il Muro, la DDR, il Patto di Varsavia e l’influenza sovietica su scelte politiche (e casse) del PCI. Mario Draghi sta forse, disperatamente cercando di far chiudere totalmente il rubinetto del gas russo al nostro Paese?
Perché quale sia l’arma ritorsiva preferita dalla Russia ormai è noto. Ne sanno qualcosa Germania, Finlandia e Francia. E anche da noi, Eni ha già segnalato un calo nei flussi rispetto alla domanda. Forse l’inquilino di palazzo Chigi ha la certezza di una nuova fonte alternativa, tale da permettergli di essere il capofila della rottura totale e plateale con Mosca?
Già nel corso dei lavori del G7 fu proprio Mario Draghi a sottolineare l’esigenza di affrancarsi del tutto e per sempre dalla dipendenza dal Cremlino. Perché però questa durezza, quando Emmanuel Macron e Olaf Scholz appaiono – giorno dopo giorno – sempre più degli equilibristi sul filo? Viene da chiederselo. E il fatto che più di un quotidiano ieri abbia aperto la sua prima pagina con lo scontro diretto fra il nostro Premier e il Cremlino certifica la portata – quantomeno mediatica – dell’accaduto. Quali conseguenze avrebbe, oggi come oggi, un’eventuale ritorsione russa di quella portata sull’Italia? Catastrofica. Perché siamo già in ginocchio a livello idrico, piegati da una siccità che è più figlia dell’incuria nella gestione degli acquedotti (i quali sprecano un terzo dell’oro blu totale) che del cambiamento climatico. E con i prezzi delle bollette a stelle, tanto da aver costretto il Governo a un altro mini-intervento, a fronte di rincari estivi che già si preannunciano devastanti per salari inchiodati.
E qui, va a inserirsi anche la questione bonus 200 euro. Il quale a luglio arriverà solo per dipendenti, pensionati e percettori di Reddito di cittadinanza. Mentre Co.co.co, stagionali e disoccupati dovranno aspettare ottobre. Il mese in cui, a detta dell’Europa, si parlerà appunto di tetto sul prezzo del gas. In un caso e nell’altro, comunque, sarà tardi. Chiunque prenda un mezzo pubblico e faccia la spesa al supermarket, ne è conscio.
Anche qui, qualcosa stona. Al netto di casse pubbliche incapaci di erogare in un’unica soluzione i 200 euro spettanti all’enorme platea di circa 30 milioni di italiani, dato già preoccupante di suo e che il Governo avrebbe dovuto conoscere prima di lanciarsi in proclami, perché non privilegiare quelle categorie senza tutele, piuttosto che chi – tante o poche che siano – su un’entrata mensile garantita ci può contare? Forse un collaboratore o un senza lavoro hanno più bisogno di un lavoratore pubblico di quei 200 euro, magari proprio per pagare la luce ed evitare di restare al buio. E senza ventilatore nel pieno dell’inferno di Caronte. Certo, il taglio del gas russo farebbe precipitare la situazione macro. E costringerebbe il Governo a scelte drastiche, impopolari, quasi da stato di emergenza. Lo stesso che, casualmente, da giorni invocano le Regioni, incapaci di fare i conti con i danni del caldo. Lo stesso che il Covid ha fatto prorogare per due anni, portandolo a termine lo scorso 31 gennaio. Poi la guerra, altro stato di emergenza, legato alla nostra fornitura di armamenti all’Ucraina. Con tanto di secretazione di quelle spedizioni, caso più unico che raro: in Usa e Germania quella lista è on-line. Pubblica. Qui è nelle mani del Copasir. Lo stesso organo di controllo parlamentare terminato nel poco gradevole affaire delle liste di proscrizione di filo-putiniani pubblicate sul Corriere della Sera. E con i Servizi sullo sfondo. Mettete nel novero finale quella frase del presidente del Consiglio – Non mi faccio commissariare dal Parlamento – pronunciata prima del parto gemellare delle comunicazioni alla Camere in vista del Consiglio europeo e, alla fine, il quadro che ne esce è abbastanza inquietante. Da chiarimento interno alla maggioranza, volendo usare un gergo politichese.
Ma non accadrà. Perché proprio nel pieno di questa escalation verso una nuova, potenziale emergenza, ecco saltare fuori dal cilindro romano della politica il nuovo soggetto politico euro-atlantista del ministro degli Esteri, partito nato in provetta con l’unica finalità di operare da fertilizzante di un Draghi-bis e di depotenziare del tutto la spinta critica di M5S, principalmente sul fronte Ucraina. Con la Lega ancora tramortita da Verona, Monza e Alessandria e Forza Italia in cerca di un ruolo che mai più avrà, palazzo Chigi di fatto può gestire l’intera agenda come vuole. E infatti, sul Pnrr ennesima fiducia. Senza che nessuno dica nulla, senza – soprattutto – che il Quirinale abbia più fatto sentire la sua voce, quantomeno riguardo le prerogative del Parlamento.
Quell’uscita al G7, probabilmente, è stata solamente un eccesso di protagonismo dettato dalla stanchezza di un tour de force estenuante. Ma lascerà il segno, lo stigma nei rapporti con la Russia. A meno che la pratica del dialogo con Mosca non sia già stata archiviata, chiusa. Probabilmente in forza a una certezza politica anche per il futuro, una continuità di linea oltranzista che vada al di là della scadenza naturale di legislatura. Cerchiamo l’incidente diplomatico, forse, solamente per poter adottare l’agenda Biden del blame on Putin, in vista di un autunno che si prefigura a dir poco problematico? Il Presidente Usa, infatti, ha tramutato in mantra il suo continuo accostare in maniera diretta l’aumento dei prezzi in patria, soprattutto della benzina alla pompa, con la guerra scatenata da Mosca in Ucraina. Tanto che i media hanno coniato il neologismo Putinflation. Per un po’, ovvero prima che la Corte Suprema spostasse il focus social e mediatico sul tema aborto, ha funzionato. Almeno nel gioco di sponda con la Fed.
Forse Mario Draghi cerca un pericoloso alibi da giocare a settembre sul tavolo della Bce, conscio – essendo vagamente preparato in materia – del nulla in cui si sostanzierà concretamente il famoso scudo anti-spread, come spiegato nel mio articolo di ieri? Difficile trovare altra spiegazione alla sistematica ricerca della rissa con Mosca, quasi si volesse spiccare nel gruppo e rendersi riconoscibile. Divenendo bersaglio.
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