Il non restituire all’Italia quei terroristi di estrema sinistra che, negli anni delle inchieste giudiziarie, scelsero di rifugiarsi nella vicina Francia, che li accolse e li protesse quali “nuovi partigiani” sfuggiti al “regime” che li perseguitava, riapre almeno tre ordini di problemi, tra loro diversi.
Il primo è certamente quello della significatività di una pena che, arrivando a quasi mezzo secolo di distanza dai crimini commessi, finisce per avere un valore esclusivamente morale: non punisce più nessuno e quindi non rende nemmeno più giustizia a nessun altro. Il secondo è quello della inanità delle sofferenze patite dai familiari delle vittime che hanno visto per decenni gli assassini dei propri cari beneficiare di un esilio dorato, splendidamente accolti nei salotti della Parigi progressista. Il terzo è quello dell’incapacità strutturale del nostro Stato democratico di raggiungere il “minimo sindacale” di decenza istituzionale: quello di sapersi imporre sugli altri Stati quando si tratta di esercitare il proprio diritto. Infatti, che si tratti di un terrorista da rimpatriare, di un innocente da liberare o di una vittima alla quale rendere giustizia, l’incapacità dei diversi governi, puntualmente e drammaticamente, è sempre la stessa.
Ma questi tre diversi problemi sono tra loro uniti anche da una sorta di “invalidità culturale”: quella di essere incapaci di riconoscere quella patina di diversità che di fatto attribuiamo ai singoli episodi di terrorismo. Assassini e vittime sono da noi collocati in una sorta di no flying zone della vita civile, una sorta di terra di asilo morale nella quale gli assassini sono meno assassini degli altri e le vittime – poiché non possono essere meno vittime delle altre – sono semplici “danni collaterali”. Vittime per la “criticità oggettiva del momento politico” in alcuni casi o, molto più spesso, per una beffa del destino che sempre è in agguato, vittime cioè di una semplice “disgrazia”.
Questa patina di diversità è ampiamente rivendicata dai nostri terroristi in terra di Francia che, proprio per questo, non si pentono né tanto meno si costituiscono. Ma questa interpretazione è anche sottoscritta da ampie fasce del ceto intellettuale, di qua e di là delle Alpi.
Ciò ha condotto ad una situazione paradossale dove i primi, cioè gli assassini, non solo riescono a rivendicare ed ottenere la patente della “diversità morale”, ma anche a godere di un esilio dorato in quanto confortevolmente ricevuti e ospitati dalla corrente che detiene il potere politico-culturale.
Il fatto che siano passati cinquant’anni dai delitti commessi dà la misura dell’ampiezza e della potenza che una tale copertura intellettuale, in Francia e in Italia, è arrivata a detenere.
Non avemmo il coraggio allora, non fummo capaci, né forse potevamo esserlo, di imporre alla Francia il rispetto delle nostre leggi; né la nostra intellighenzia si mosse per fare pressione sui colleghi d’Oltralpe, tutt’altro. François Mitterrand, negli anni ottanta, non era solamente l’icona della nuova élite culturale dominante, era anche il massimo rappresentante di una compagine socialista che, lentamente ma inesorabilmente, aveva scalato il potere politico e culturale, portandolo all’Eliseo.
A questa élite si è immediatamente saldato il mondo dello spettacolo, concedendogli la propria splendida vetrina. Le icone del cinema, accanto a quelle del teatro e della musica, hanno goduto di consistenti tapis roulant tutte le volte che si sono schierate a gauche, ottenendone immediatamente una patente di superiorità culturale, della quale la loro carriera ha immediatamente beneficiato.
La gauche ha occupato le massime cariche universitarie, diretto le accademie, riscritto i libri di storia e i testi di letteratura, distribuito patenti di onorabilità e redatto condanne di indecenza, stabilito i nuovi confini del diritto e ridisegnato la geometria dei rapporti sociali. Testate giornalistiche e case editrici, indipendentemente dalla tiratura delle copie, hanno occupato la cittadella del potere morale diventando le nuove vestali della “diversità culturale” e le maestre delle generazioni successive.
Di questo potere immenso e tutelare i terroristi nostrani ne sono da cinquant’anni i beneficiari, custoditi e protetti, con quel garbo e quello stile che solo chi occupa il potere è capace di detenere.
Una tale élite politico-culturale ha ottenuto una cauzione immediata dal nostro Paese. Siamo stati incapaci di affrontare il problema, di argomentare. Persino di indignarci quando i nostri amici della gauche d’Oltralpe ritenevano che in Italia il regime democratico si fosse reso protagonista di processi sommari e di metodi lesivi dello Stato di diritto. Nessuno tra gli accademici o gli intellettuali che hanno goduto delle luci della celebrità mediatica, almeno che io sappia (e sarei felice di essere smentito) ha osato levare la voce contro questa coalizione dell’incoscienza. Una coalizione che si poteva cogliere serenamente e facilmente in ogni aula universitaria, in ogni café e soprattutto sulle pagine di Le Monde o del Nouvel Observateur.
Persi ad inseguire le emergenze politiche (per non parlare di quelle economiche e di quelle giudiziarie) abbiamo sempre avuto tra le mani altre carte, altri problemi. Per molti tra noi, i terroristi sfuggiti alla giustizia e comodamente installati nelle università di Francia e tra i café di Montparnasse, erano certamente uno dei problemi minori, avevamo ben altro di cui occuparci. Lo abbiamo ancora oggi e certamente più di prima.
Dietro la mancata estradizione dei nostri cittadini terroristi ci sono cinquant’anni di questa storia e di questa nostra incapacità di farvi fronte.
Il problema non è pertanto quello di come agire ora nei confronti dei nostri terroristi al caviale e della Francia che li protegge, quanto quello di capire chi siamo realmente noi, di come recuperare una dignità morale dinanzi alle vittime ed ai loro cari, ma anche dinanzi a noi stessi ed alla cultura di cui siamo eredi.