L’ interesse per il futuro della democrazia italiana dovrebbe essere al centro dello studio di storici, sociologi, analisti di geopolitica, economisti, armati dei loro algoritmi, e magari di qualche teorico innovativo, se esiste ancora qualcuno che è in grado di farlo rispetto alla realtà in cui vive.
Ma visti i tempi che stiamo passando, in attesa del ricambio parlamentare previsto per l’anno venturo, è diventato addirittura difficile immaginare quale forza di maggioranza, anche relativa, uscirà dalle urne (con tutta probabilità deserte almeno per qualche decimale superiore alla metà dell’elettorato), quale tipo di schieramento maggioritario possa uscire, quale legge elettorale verrà adottata e quale situazione complessiva, a livello nazionale e internazionale, vivremo noi italiani.
Soprattutto in Italia la situazione politica e istituzionale è quella che oggettivamente preoccupa di più da almeno vent’anni, ma si è aggravata nell’ultimo decennio peggiorando ulteriormente, con due presidenti del Consiglio tecnici non eletti e con delle maggioranze mutevoli da brivido, sino ad arrivare a una grande ammucchiata finale che litiga periodicamente, sempre in modo più frequente, al suo interno.
Guardiamo velocemente la realtà attuale che ci circonda. A trent’anni dalla fine del comunismo, sulle ceneri della vecchia cortina di ferro è scoppiata una guerra (cioè l’invasione della Federazione Russa in Ucraina), di cui non si vede ancora una fine o una soluzione di tregua, e che può produrre rischi gravissimi a diversi livelli.
In tutti i casi, questa guerra segnerà il passaggio da un’epoca storica a un’altra e una mappa geopolitica completamente mutata rispetto al passato.
Poco prima, il mondo intero, per oltre due anni, è stato lacerato da una pandemia che non è ancora stata del tutto sconfitta, che ha aggravato una crisi economica che durava da anni e che era scoppiata in tutta la sua ampiezza già nel 2008. Si vive in quasi tutte le democrazie, ma anche nelle autocrazie storiche (che cosa sono gli oligarchi?), una crisi economica che può diventare l’anticamera di scontri sociali impensabili per le differenze di ricchezza, per le speculazioni finanziarie, per le diseguaglianze economiche che sono emerse e poi che si sono consolidate in questi anni e che possono addirittura cancellare alcune classi sociali come la piccola e media borghesia, il tratto distintivo della democrazia occidentale.
Diamo poi per scontato, lo abbiamo ripetuto più volte, il nuovo impatto tecnologico che rivoluzionerà tutto il mondo della produzione, del lavoro e degli stessi rapporti sociali.
La domanda diventa inevitabile: come ci si prepara a un simile mutamento, a un passaggio storico di tale portata in una situazione di palesi difficoltà? Nessuno ha veramente il coraggio di rispondere a questo problema se non con frasi fatte e ripetute ormai noiosamente.
I protagonisti politici di oggi danno veramente modeste rassicurazioni. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, appare debole e preoccupato soprattutto per la maggioranza che lo sostiene al Congresso e quindi teme le elezioni di midterm. Il suo avversario attuale, Vladimir Putin, vinca o non vinca sul campo in Ucraina, non ritroverà mai la credibilità perduta ed è destinato a un isolamento che non terminerà più. Il cinese Xi Jinping comincia ad accusare problemi economici, teme il mutamento della globalizzazione e aspetta di misurarsi con gli Stati Uniti non certo con baldanza e sicurezza. È persino più misurato nelle minacce.
Poi c’è l’Europa, quella dei “veti” di Malta o Cipro, a seconda dei casi e degli interessi marginali, che possono bloccare qualsiasi iniziativa continentale. Ogni tanto si alza qualcuno e dice in modo perentorio: “Bisogna cambiare”. La frase è ripetuta da circa trent’anni e nessuno finora ha mai cambiato questo regolamento che fa ridere qualsiasi costituzionalista che faccia riferimento anche a federazioni o confederazioni, dove l’Europa non rientra neppure come fattispecie. Ma è solo un esempio macroscopico e grottesco tra i tanti errori di un’Europa mal costruita, che si proclama poi “compatta”, fin quando le conviene o deve fare dichiarazioni di facciata.
Nella descrizione della classe dirigente europea si può vedere un Emmanuel Macron ammaccato, un Olaf Scholz sottotono che eredita gli errori della sempre acclamata e ora dimenticata Angela Merkel, la signora con probabili nostalgie di Lipsia e della Ddr (sua vecchia patria) e tanto cara ai russi per i contratti sul gas e in genere i prodotti energetici. Chissà se la vecchia giravolta che fece nei confronti di Helmut Kohl non sia dovuto a tutto questo?
Infine arriva il nostro Mario Draghi. Che cosa conta a livello europeo? In questo momento, essendo un ex presidente della Bce e soprattutto un ex di Goldman Sachs, ha sostituito, meglio di Macron e di Scholz, i rapporti con gli americani che sono alla fine il “perno” vero della Nato.
Questo gioco, a Draghi, può riuscire ancora, ma è difficile valutarne il tempo. Il cosiddetto quadro internazionale è talmente in movimento e l’Italia ex “baricentro” del Mediterraneo, mediatrice con l’Africa del Nord ai tempi della Prima Repubblica, è solo un lontano ricordo.
Ma poi Draghi deve fare i conti in casa propria e qui, proprio in questi giorni, si è arrivati al grottesco.
Un sociologo e storico piuttosto “suonato”, un giornale che più fazioso non si può, un partito o un “movimento”, si può scegliere il nome intanto non fa alcuna differenza, che sta passando dal 33 per cento a meno del 10 e attraverso una catena di scissioni che non si possono neppure definire politiche, un comico che fa ridere solo i suoi parenti, tra dichiarazioni e telefonate, mettono insieme un pandemonio al quale Draghi è costretto a rispondere.
Che l’uomo di Goldman Sachs e degli americani si debba poi misurare con Grillo, con Travaglio e il “Conte imbronciato”, sottolineando che poi stanno tutti nella stessa maggioranza, lascia l’amaro in bocca e fa pensare che la relativa marginalità italiana nel grande gioco mondiale delle potenze va di pari passo alla decadenza democratica del Paese.
Sembra che il Paese, in questo modo, salvaguardi, secondo antico costume, solo il primato dell’ipocrisia: tutti litigano, tutti stanno in maggioranza, tutti vogliono la crisi di governo ma la evitano perché poi arrivano risultati elettorali che possono delineare un quadro incomprensibile. Notizia del tutto inutile probabilmente: lunedì ci sarà un confronto tra il leader dei 5 Stelle e il presidente del Consiglio.
Ma è possibile che, di fronte a questi scontri sul nulla, nessuno si interroghi sul nocciolo del problema? È possibile che nessuno comprenda che in Italia, dalla repubblica dei partiti che rappresentavano con il voto i cittadini, si sia passati alla repubblica senza partiti, dove non si va più a votare perché non ci si sente rappresentati?
E se non ci si sente rappresentati a quale democrazia si sta pensando ? A una riduzione non solo dei partiti, ma anche del Parlamento e della stessa rappresentanza? Da dove dovrebbe uscire la nuova classe dirigente che deve affrontare le sfide storiche che ci aspettano? Sarà un tecnico a dirigere il Paese o una maggioranza di destra, risparmiata dal “manipulitismo” oppure il “campo largo” che raggruppa persino i nipotini del comunismo collassato?
Incredibile che nel dibattito italiano, nessuno pensi concretamente a tutto questo. Anzi, sembra che nessuno voglia neppure affrontare il problema, mentre in questo modo, come minimo, si cammina verso la consacrazione, naturalmente mimetizzata in modo ipocrita, di una democrazia dimezzata.
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