Il prezzo del gas ieri ha registrato un nuovo balzo in Europa: 175 euro nel riferimento TTF (+8%, con future a quasi 190 per l’autunno). La causa è sempre la guerra russo-ucraina, ma la dinamica di una “crisi nella crisi” è stata molto particolare. Alla base vi è stato lo sciopero che – apparentemente a sorpresa – ha paralizzato tre stazioni di estrazione gestite nel mare del Nord da Equinor, cioè dallo Stato norvegese. Nello Stato scandinavo le risorse energetiche (quelle del settimo produttore mondiale di gas e tredicesimo di petrolio) sono di proprietà pubblica e vanno a finanziare un leggendario welfare “dalla culla alla tomba”.
Forse perché abituati a questo ambiente socioeconomico, i sindacati degli addetti Equinor hanno deciso di lanciare un segnale forte dopo che l’inflazione norvegese è balzata al 5,7% (nell’Ue, di cui Oslo non fa parte, il tasso medio annuo è già all’8,6%). Nei prossimi giorni altre quattro piattaforme potrebbero entrare in sciopero – tagliando l’intera produzione del 15% – se dal Governo non giungeranno risposte all’improvvisa fiammata dei prezzi. Questa è stata creata principalmente dal boom dei prezzi di gas e petrolio, conseguente alle sanzioni anti-russe decise anche dalla Norvegia. Che esprime in questo momento il segretario generale della Nato, l’ex premier Jens Stoltenberg. Teorico quasi quotidiano della “guerra lunga fino alla vittoria completa” contro la Russia putiniana.
L’esecutivo di Oslo è guidato oggi da Jonas Gahr Stoere, leader del partito laburista ed è sostenuto da una coalizione di minoranza. In chiaro affanno, ieri ha fatto filtrare la disponibilità a studiare “misure d’emergenza in circostanze speciali”. Cioè, è facile prevedere, sussidi “una tantum”. Di quelli che un Governo “frugale” del Nord Europa condannerebbe in un misto di disprezzo e commiserazione se a deciderlo fosse un pig-country del Mediterraneo. Tutto, nel caso specifico, per difendere l’ormai indifendibile Stoltenberg, lui pure “labour”, cioè” “dem/bideniano”? Magari lasciando nell’ambiguità il rozzo ma inevitabile interrogativo di fondo: sono i sindacati dei “minatori del mare” norvegesi al soldo di Mosca o è il Governo di Oslo al soldo di Washington?
Neppure (il quasi-indifendibile) Giuseppe Conte – avvocato populista – ha osato far cadere il Governo Draghi: eppure la stagflazione in Italia morde già più che in Norvegia. E cosa titolerebbe FT se il Segretario della Cgil italiana Maurizio Landini o il leader di Nupes Jean-Luc Melenchon, in Francia, chiamassero le piazze contro Draghi e Macron perché si preoccupano più dei cannoni in Ucraina che del prossimo riscaldamento invernale nei rispettivi Paesi? E i 240 milioni di elettori americani che fra cento giorni rinnoveranno l’intera Camera dei rappresentanti sono più preoccupati dell’inflazione o delle sentenze della Corte Suprema?
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