La guerra scatenata dalla Federazione contro l’Ucraina ha portato a una crisi energetica nel Vecchio Continente. Non solo si è alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento di olii minerali e di gas in vari Paesi del vicino oriente, ma è in corso un silenzioso ripensamento sul nucleare. Lo è anche negli Stati Uniti, che pur non mancano di energia fossile: l’Amministrazione Biden ha appena varato uno stanziamento di 6 miliardi di dollari per l’ammodernamento di vecchi, e piccoli, impianti nucleari che erano destinati ad essere dismessi.
Ho lavorato su tematiche energetiche sia quando ero molto giovane, al centro studi Cespetro, sia in Banca Mondiale, sia più di recente in vari incarichi per la Pubblica amministrazione italiana. Soltanto in alcuni casi ha avuto un ruolo in prima persona in materia di energia nucleare. Negli anni Sessanta del secolo scorso, appena entrato in Banca Mondiale, fui coinvolto nello dello studio sulla convenienza di utilizzare energia nucleare nei Paesi in via di sviluppo; l’analisi costi efficacia effettuata con la metodica dell’epoca diede risultati piuttosto incerti e il possibile supporto dell’istituzione a progetti elettronucleari venne allora in pratica abbandonato.
Negli anni Ottanta del secolo scorso mi trovai al ministero del Bilancio e della Programmazione economica, a dover coordinare il lavoro di una commissione per decidere il ri-finanziamento di due progetti sperimentali, il Pec e il Cirene. Non solo le stime dei costi erano aumentate di vari multipli (rispetto a quelle iniziali), ma la tecnologia era ormai obsoleta; il proponente (all’epoca l’Enea) aveva come unico argomento quello di completare i progetti per cederli al ministero degli Affari esteri che avrebbe potuto utilizzarli per l’addestramento di personale di Paesi in via di sviluppo a valere sui fondi della cooperazione. Ovviamente, non se fece nulla.
Interessante e ancora attuale l’analisi per la riconversione della centrale termonucleare di Montalto di Castro anche come esempio di analisi costi benefici relativamente a investimenti o politiche in cui l’elemento rischio è di grande rilievo e la tecnica del “valore di rovesciamento” (ossia a quale valore la risposta “si rovescia” e da negativa diventa positiva o viceversa) rappresenta un’utile scorciatoia operativa.
Alla fine degli anni Ottanta, i risultati di un referendum, tenuto dopo l’incidente all’impianto termonucleare a Chernobyl in Ucraina, venne interpretato come un esito chiarissimo di un’analisi costi benefici politica in materia di sviluppo dell’energia nucleare a fini produttivi: un forte e netto “no”. Le implicazioni erano semplici per impianti piccoli e obsoleti (quali quello di Borgo Sabotino) – da dismettere – o per impianti in progettazione (quali il secondo lotto della centrale di Trino vercellese), ma complicate per impianti in costruzione (quale quello di Montalto di Castro), dove per di più era già stato effettuato un forte investimento che altrimenti non avrebbe avuto utilizzazione economica. Il Parlamento diede mandato al ministro dell’Industria di studiare “la fattibilità tecnica e la utilità economica” della conversione dell’impianto,
Un’apposita commissione (di cui facevano parte anche esperti di nome e livello internazionale – la presiedeva il Prof. Spaventa e ne faceva parte il Prof. Draghi oggi presidente del Consiglio) decise di fare ricorso all’analisi costi benefici per affrontare il problema. Era un’impostazione corretta in quanto si trattava di progetto “marginale” (nel senso che la sua realizzazione o meno non incideva sulla struttura di produzione del Paese) e si cercava una risposta dicotomica: accettazione o rigetto dell’operazione. La commissione, però, non affrontò mai quale analisi condurre, se dal punto di vista della collettività (a prezzi “economici” e nell’ambito di una funzione di benessere sociale anch’essa “economica”) o dal punto di vista dell’ente produttore (l’Enel) e dei consumatori. Ammesso che il referendum aveva dato una risposta all’analisi dei costi e dei benefici “politici”, si sarebbe dovuto optare per un’analisi finanziaria o economica oppure meglio ancora per ambedue.
Sotto il profilo dell’analisi economica, poi, si sarebbe dovuto affrontare il problema del valore economico da dare al bene pubblico “sicurezza” (nel senso di “assenza di rischio”) e al bene meritorio o sociale “innovazione”. Il primo, in particolare, nel caso di una centrale nucleare ha una caratteristica peculiare: la probabilità di un incidente è molto bassa, ma in caso di incidente i danni a cose e persone sono vastissimi. Sotto il profilo dell’analisi economica, la commissione avrebbe dovuto anche chiedersi quale numerario (e quale sistema di prezzi ombra) adottare. La commissione produsse un documento in cui si faceva, essenzialmente, un’analisi costi benefici dal punto di vista dell’ente produttore (l’Enel, che aveva comunque fornito i dati tecnici) e delle eventuali sovvenzioni dall’erario L’assunto implicito di base era che la convenienza, o meno, all’ente produttore e all’erario era rappresentativa anche della convenienza, o meno, alla società. Un assunto rudimentale. Depurato da alcuni errori contabili, il confronto concludeva che l’alternativa nucleare era quella più “conveniente” sia per l’ente, sia per l’erario, ossia la Pubblica amministrazione ed ergo, nel documento della commissione, per la collettività (Ministero dell’Industria, 1988).
Un centro studi economici privato, invitato informalmente dal ministro del Tesoro dell’epoca a verificare il lavoro della commissione, ne corresse gli errori contabili e ordinò le alternative in base al Saggio interno di rendimento (Sir): 18,5% per il nucleare, 10% per il gas e 11% per il policombustibile. Anche se il problema di fondo consisteva nel raffronto non di progetti differenti ma di alternative tecniche per raggiungere il medesimo obiettivo progettuale (ossia la produzione annua di una determinata quantità di energia elettrica), l’analisi avrebbe dovuto ordinare le alternative non in base al Sir ,ma in base al Valore attuale netto (Van) per ragioni note a chiunque abbia dimestichezza con la metodologia. Inoltre né l’analisi della commissione, né quella del centro studi affrontavano i quesiti di fondo: come valutare il bene pubblico “sicurezza” (assenza di rischio) e il bene meritorio o sociale “innovazione”.
Questi errori vennero colti da Francesco Forte che affidò le sue conclusioni a un diffuso quotidiano italiano. Il suo lavoro affrontava correttamente la valutazione in quanto problema di minimizzazione dei costi complessivi e proponeva, per quantizzare il bene pubblico “sicurezza”, l’utilizzazione, ai fini dell’analisi, di stime di costi aggiuntivi (all’alternativa nucleare) quali derivati da un recente rapporto sulla sicurezza nucleare all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) dell’Onu al Governo italiano. Su questa base, concludeva che il policombustibile sarebbe stata l’alternativa tecnica che avrebbe minimizzato i costi totali all’ente e all’erario e fornito, al tempo stesso, un livello di sicurezza adeguato alla collettiva. Le alternative venivano correttamente raffrontate sulla base del Van, non del Sir
In un’analisi parallela, pure essa pubblicato in forma riassuntiva su un mensile, anche io seguì la stessa strada di Forte con alcune caratteristiche aggiuntive. Sotto il profilo della stima dei benefici e dei costi economici, raffrontavo i costi per il bene pubblico “sicurezza” quali derivanti dal rapporto dell’Aiea con le tecniche allora in vigore negli Usa giungevo alla conclusione che le stime quantitative sarebbero state approssimativamente le stesse (per la due alternative, nucleare e policombustibile) in termini di costo pro-capite nell’area potenzialmente a rischio, pur molto basso. Tentai anche di affrontare il tema della quantizzazione del bene meritorio-sociale “innovazione”, concludendo che a tale voce si doveva dare un valore nullo in quanto la tecnologia termonucleare utilizzata per l’impianto di Montalto era già superata da quella adottata per impianti in costruzione in Svezia e Svizzera. La stima del Van veniva rielaborata utilizzando un saggio di attualizzazione al 5%, considerato meglio rappresentativo del saggio di interesse sui consumi; in tal modo, si rendeva l’intera analisi compatibile con l’obiettivo di crescita dei consumi. I risultati confermavano che il policombustibile appariva come l’alternativa tecnica preferibile se la “sicurezza” veniva stimata seguendo le procedure Aiea-Usa e considerando nullo il valore dell’innovazione. Al saggio di attualizzazione del 5%, il test di accettazione o rigetto avrebbe dato risultati rovesciati (ossia favorevoli all’alternativa nucleare) se non si fosse aggiunto il costo delle ulteriori misure di “sicurezza” e, come richiesto dall’ente produttore, si fosse invece inclusa una valorizzazione positiva per l’innovazione, considerando l’impianto come “presidio” per l’innovazione nel settore.
Quali implicazioni per le politiche energetiche di questi anni? Il metodo risulta valido anche oggi come strumento per valutare le scelte in materia di politiche e progetti, specialmente se arricchito con le nuove tecniche di analisi per affrontare irreversibilità e incertezza. Dato il progresso tecnologico in materia di “sicurezza” è altamente probabile che oggi i risultati siano “rovesciati”, rispetto a circa cinquanta anni fa, a favore del nucleare.
Propongo che si apra un dibattito.
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