Ieri il cambio euro/dollaro è arrivato vicino alla parità; se andasse sotto, manca meno dell’1%, sarebbe la prima volta dall’autunno del 2002. Ieri mattina è uscito lo “Zew”, l’indice tedesco della fiducia degli investitori, sceso ai livelli del 2011, quando l’Europa era alle prese con la crisi dei debiti sovrani. Le aspettative misurate dall’indice sono sotto i livelli del 2020 quando l’Europa era ferma per il Covid e i lockdown. Il Presidente dell’istituto che pubblica l’indice ha dichiarato che “le attuali gravi preoccupazioni per la disponibilità di energia in Germania, l’annunciato incremento dei tassi della Bce e le restrizioni in Cina hanno portato a un considerevole deterioramento delle prospettive economiche”.
L’euro soffre perché il motore industriale dell’unione, la Germania, rischia di incepparsi per mancanza di gas. La crisi economica in Europa apre gli spread e la frammentazione e questo sarebbe già un elemento di tensione per l’euro e l’unione, ma oggi la questione è più decisiva. Non si tratta di un rallentamento temporaneo, di una crisi economica o recessione globale che bisogna affrontare per poter riemergere, più o meno indenni, quando la crescita riprende. Questo sarebbe lo scenario se non si ponesse il problema di trovare energia che oggi non c’è e se non si assistesse a una ristrutturazione delle catene di fornitura globale profonda. Nel nuovo mondo i fattori di solidità e competitività dei sistemi, sia a livello di Stato che nel caso europeo di unione, non sono più quelli di prima.
I Paesi che sono meglio posizionati per la fase che si apre sono quelli che hanno disponibilità energetica e risorse, che hanno un mercato interno solido e che riescono a essere il più possibile “autonomi” nei settori strategici. La Germania in questo senso è fragile perché non ha risorse e non ha modo di procurarsele a costi competitivi. Ristrutturare l’industria richiede investimenti e risorse enormi. Tolta l’industria europea, asfissiata per mancanza di gas, cosa rimane dell’Europa? Un mercato interno che non funziona bene, perché non si parla la stessa lingua e non si consumano le stesse cose, una politica estera che non può contare su un esercito e una frammentazione finanziaria che si può curare solo con una volontà politica ferrea e tanti costi.
Gli Stati Uniti entreranno in recessione appena dopo l’Europa, ma il sistema è molto più resiliente: dalle risorse naturali, alla valuta di riserva, passando per l’esercito e una politica estera sovrana che può contare su un esercito. In questo scenario le considerazioni sui debiti pubblici e privati lasciano il tempo che trovano. Gli Stati Uniti se vogliono e se mettono in atto le politiche giuste hanno i mezzi per rimpatriare l’industria che è stata espatriata negli ultimi 40 anni.
La politica europea non sembra avere presente la questione. Si comporta come se si fosse alla vigilia di una crisi “normale” per quanto grave mentre invece circolano ipotesi di contingentamento energetico e docce fredde. La crisi che arriva non si risolve con una politica monetaria più efficace o con nuovi strumenti di calmierazione degli spread.
L’Europa, come istituzione, non è attrezzata e infatti viene sorpassata dagli Stati sulla questione vitale che è quella energetica. L’andamento dell’euro è solo una conseguenza finanziaria di un problema che è politico. L’euro debole accelera la crisi dell’Europa perché importa inflazione soprattutto quella energetica. Forse una recessione potrebbe curare parzialmente il problema dei costi energetici facendo crollare la domanda, ma l’Europa anche in questo scenario rimane debole. Il suo problema, in estrema sintesi, è sostituire la Russia e le sue risorse naturali sterminate e a basso costo che sono state un elemento decisivo del successo economico tedesco ed europeo e che hanno sopperito alla debolezza politica e militare dell’unione. Basta uno sguardo al mappamondo per comprendere la portata della sfida.
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