“L’unica soluzione possibile alla crisi è che Draghi resti a Chigi” ha detto il super-governista Renzi a El Pais. Forse è così che andrà. Ma non è detto che lo pensi anche Draghi, le cui intenzioni, a quattro giorni dalle dimissioni respinte dal capo dello Stato, restano imperscrutabili. È il presidente del Consiglio il vero arbitro della crisi. Devono averlo capito anche i 5 Stelle, che in omaggio al detto andreottiano che il potere logora chi non ce l’ha, potrebbero vedere una nuova emorragia di parlamentari (da 24 a 30, secondo alcune stime) diretti verso “Insieme per il futuro” (Ipf), il partito di Di Maio al quale il profluvio di commenti e analisi di questi giorni non ha dato l’importanza che merita nella genesi di questa crisi.
Costruito apposta per fare da sirena ai pentastellati contiani, Ipf potrebbe rappresentare anche la soluzione in grado di far cambiare idea all’ex presidente della Bce, alimentando una nuova scissione in M5s e rimpolpando le fila degli ex 5 Stelle che sostengono l’esecutivo. A quel punto una delle condizioni poste da Draghi per continuare l’azione di governo (“ho già detto che per me non c’è un governo senza 5 Stelle”) potrebbe assumere un nuovo significato, favorendo non la rottura ma la continuità. Sarebbe la vittoria di Di Maio e la discesa agli inferi di Conte.
Se Draghi fosse disponibile a continuare, l’onere della scelta responsabile tornerebbe nel campo del centrodestra di governo, Lega e FI. Salvini e Berlusconi in questi giorni hanno tracciato linee precise: i due partiti, “pronti comunque a sottoporsi anche a brevissima scadenza al giudizio dei cittadini”, hanno escluso di governare con i 5 Stelle, per la loro “incompetenza e inaffidabilità”. Resta da capire se FI e Lega potrebbero dire sì anche ad una maggioranza senza Conte ma con Di Maio. È lecito dubitarne, se questo cambio di maggioranza non passasse da un rimpasto di governo e dalla ridefinizione di un programma chiaro e condiviso fino alla fine della legislatura. Ieri sera Salvini ha ascoltato deputati e senatori, ma si riserverà di decidere all’ultimo, probabilmente alla luce di quello che dirà Draghi in aula.
Chi appare in affanno è il Pd. I dem prima hanno appoggiato la richiesta Crippa (M5s) che il premier parlasse prima alla Camera, dove tra i contiani prevalgono i governisti e potrebbe perfino maturare la nuova scissione, ma l’operazione è stata rintuzzata da Fico e Casellati: i due presidenti hanno deciso che la comunicazione di Draghi avverrà al Senato, dove il governo ha avuto il primo voto di insediamento. Per Letta la sopravvivenza dell’esecutivo è vitale, per tentare di ricostruire con i centristi – morto il “campo largo” – un altro patto elettorale, anche se ovviamente l’esito non è assicurato. Ma, come Renzi, Di Maio, Toti e altri, non può permettersi di andare al voto. E sia Mattarella che Draghi sanno benissimo che la condizione per mantenere l’Italia agganciata fedelmente alle politiche europee è la permanenza a Chigi – e in maggioranza – dell’architrave politico dell’europeismo italiano, quel Pd che governa dal lontanissimo 2011 (salvo parentesi gialloverde).
E la soluzione del rebus-Draghi? Volendo, un indizio c’è, anch’esso quasi dimenticato in questi giorni. E sta in quel monito – era il 12 luglio – “a chi parla di sfracelli a settembre”, con l’avviso che “un governo con gli ultimatum non lavora”. In questo caso il destinatario non era Conte, ma Salvini. Senza M5s non c’è governo vuol dire – per Draghi – meglio a casa che governare sotto la pressione del centrodestra di Governo, con la Lega primo gruppo parlamentare da qui al 2023. Una prospettiva di centrodestra che Mattarella da inizio legislatura è riuscito ad evitare in ogni modo. A questo punto, meglio i 5 Stelle. Governisti, s’intende.
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