Un composto, rispettoso silenzio. Lo ha invocato Salvatore Borsellino alla vigilia del 30esimo anniversario della strage di via D’Amelio, certamente il più amaro di tutti. È difficile, per quello che qui cercheremo di spiegare, non aderire alla richiesta del fratello di Paolo Borsellino per onorare una figura straordinaria di uomo e di magistrato. Al contempo, ogni cittadino italiano dovrebbe chiedere a gran voce che lo Stato italiano faccia chiarezza su quanto, non poco, resta ancora avvolto nell’ombra in merito alla sua uccisione.
Per anni ci siamo interrogati su come sia stato possibile che dopo l’attentato a Falcone non si sia riusciti a difendere la vita del suo amico e collega, focalizzando l’attenzione su ciò che accadde a ridosso delle due stragi. Invece, la vera tragedia è rappresentata da quanto taluni degli appartenenti allo Stato abbiano posto in essere dopo la strage per impedire che si potesse anche solo sfiorare la verità su quanto fosse accaduto.
Ecco che la memoria Borsellino, per quanto possa essere atroce doverlo riconoscere, è stata in questi trent’anni vilipesa per via giudiziaria, realizzandosi il più grosso depistaggio della storia della giustizia italiana, che pure ne ha conosciuti non pochi. Se allora dobbiamo onorare la richiesta di silenzio, abbiamo il dover morale di far comprendere, urlandolo a squarciagola, che la storia di Vincenzo Scarantino, arrestato nel settembre 1992 due mesi dopo la macelleria di via D’Amelio col titolo di boss mafioso, poi faticosamente ricondotto a quello di rubagalline, rappresenta una vergogna nazionale le cui cause vanno, a tutti i costi, individuate e cristallizzate.
Proviamo a mettere ordine, quanto meno per dismettere quel velo di ipocrisia e retorica. Scarantino ci mise un paio d’anni a pentirsi, durante i quali subì pressioni e torture – realizzate da parte del gruppo di poliziotti che era stato costituito per svolgere le indagini sulle due stragi – al fine di fornire una falsa ricostruzione di come fu preparata quella strage. Qualcuno palesò subito dei dubbi (Ilda Boccassini) e però l’inverosimile fu accreditato per incontrovertibile da un centinaio fra pm e giudici che, senza colpo ferire, sfornarono una quantità di ergastoli cancellati solo tre lustri più tardi, quando un altro pentito, Gaspare Spatuzza, smontò le favolette del povero Scarantino.
Come è stato possibile che per quindici anni la magistratura italiana si sia fatta prendere per il naso da un ladruncolo che nulla aveva a che fare con la strage? Non di meno, chi ha ordito il complotto che interesse aveva, cosa doveva essere coperto? Perché analogo depistaggio non ci fu, da parte più o meno degli stessi investigatori, per la strage di Capaci? Cosa distingue le due stragi e i successivi destini giudiziari?
Da un tempo immemorabile la figlia di Borsellino, Fiammetta, ne chiede conto e nessuno le risponde.
Ciò che è oramai certo è che il depistaggio ci sia stato. Lo afferma la stessa Corte di cassazione che ha messo il sigillo al Borsellino quater – ovvero il processo nato per accertare l’assoluta infondatezza delle dichiarazioni rese dal falso pentito Scarantino –, stabilendo che la fiat 126 imbottita di tritolo l’aveva rubata Gaspare Spatuzza e non il falso pentito Scarantino. Oltre questa soglia, lo scenario si fa confuso.
Un’indagine sui due pm che condussero la prima inchiesta a Caltanissetta c’è stata, ma il fascicolo su Anna Palma e Carmelo Petralia – sospettati di concorso in calunnia aggravata – è stato archiviato. Non hanno commesso reati, ha scritto il gip che ha disposto l’archiviazione, ma solo degli “errori”. Tuttavia come non ricordare anche alcune frasi di Borsellino che nei suoi ultimi giorni di vita parlava della procura di Palermo come di un “nido di vipere”. Era un uomo rigoroso, tutto fa pensare che non avrebbe pronunciato una frase del genere a caso. “Io sono un magistrato e sono un testimone”, era il 25 giugno 1992 quando, nel suo ultimo intervento pubblico, Paolo Borsellino pronunciava queste parole, riferendosi a quello che sapeva sulla morte di Giovanni Falcone. Sottolineava la parola testimone, proprio perché in rapporti stretti con Falcone, riteneva di essere a conoscenza di elementi utili per ricostruire le cause della strage del 23 maggio 1992. In quell’occasione, ovvero durante un’assemblea pubblica organizzata a Palermo da La Rete, egli lanciò accuse alle istituzioni, alla sua in primis.
Al di là delle invidie e dell’ostracismo, resta francamente oscura la figura del procuratore capo di Caltanissetta di quegli anni su come furono condotte le indagini sulle stragi.
Certo, le origini del depistaggio sono strettamente collegate al movente della strage. Questo va affermato con forza. La stessa famiglia del magistrato ha sempre guardato altrove rispetto alle ricostruzioni che volevano vedere una connessione tra la strage e la trattativa, sostenendo che bisognava guardare a ciò di cui Borsellino si stava occupando negli ultimi mesi, come il dossier mafia-appalti, ovvero una lunga informativa firmata dal generale Mario Mori e da Giuseppe De Donno – gli stessi assolti dopo essere stati considerati per anni traditori dello Stato – che dopo la morte di Borsellino è stata dimenticata e che aveva ad oggetto i rapporti economici tra mafia, pezzi di imprenditoria, massoneria e politica locale, andando probabilmente a lambire anche il Palazzo di giustizia. Borsellino a quel dossier teneva molto, aveva capito che quella pista avrebbe portato a conclusioni rilevanti. Negli ultimi giorni di vita Borsellino dovette combattere per poter continuare a seguire le sue piste; a ostacolarlo c’era anche un pezzo di procura palermitana. Gli scontri che ebbe con il suo capo, Pietro Giammanco, sono noti. Resta il fatto che del dossier mafia appalti si persero le traccia a pochissimi giorni dalla sua morte.
Oltre il ruolo dei magistrati che si occuparono delle indagini scaturite dalle dichiarazioni del falso pentito, occorre, si diceva prima, capire chi quel pentito lo ha istruito e soprattutto perché. Come noto, pochi giorni fa si è concluso il processo di primo grado contro tre poliziotti accusati del depistaggio, in sostanza il primo processo sui possibili protagonisti del depistaggio. Caduta l’aggravante di aver favorito la mafia, il reato di calunnia è stato dichiarato prescritto, con ciò riconoscendosi che l’indottrinamento ci fu. E se non fu ispirato dallo scopo di favorire la mafia, chi allora ne era il beneficiario? D’altronde, ragioniamo, che motivo aveva la mafia di depistare comunque su sé stessa l’indagine?
Il depistaggio, accertato adesso per via giudiziaria, non doveva favorire la mafia in sé per sé, quanto evidentemente soggetti esterni che a quella strage, e non a quella di Capaci, avevano offerto un contributo. Secondo il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca e il sostituto Stefano Luciani, i tre poliziotti appartenenti al pool investigativo “Falcone-Borsellino”, diretto dal questore Arnaldo La Barbera morto nel 2002, manipolarono il falso pentito Vincenzo Scarantino, inducendolo – con minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti – a dichiarare il falso per depistare le indagini anche per motivi di carriera del dottor La Barbera, desideroso di dare una risposta immediata alle stragi. Quali altri obiettivi aveva il questore? Non è secondario ricordare come egli fu anche colui che negò l’esistenza dell’agenda rossa di cui gli venne chiesto conto nell’immediatezza dei fatti; sparizione che non fu certamente ispirata da un interesse di Cosa nostra. D’altronde, la signora Borsellino ha in diverse occasioni ricordato che suo marito le disse testualmente che c’era contiguità tra mafia e pezzi dello Stato interessati alla sua eliminazione.
È un anniversario amaro perché ancora troppi sono gli interrogativi che aleggiano su una vicenda che ha senz’altro segnato l’inizio della cosiddetta seconda repubblica. Se possiamo dire che dopo trent’anni, nonostante il depistaggio, un altro pezzetto di verità è venuto fuori, abbiamo il diritto di pretendere di più, onorando in silenzio la memoria di Paolo Borsellino, verso il quale ogni italiano deve sentire di avere un enorme debito di verità e giustizia. Un debito che, come ha ricordato il procuratore nazionale antimafia Melillo, nel formulare pubbliche scuse, impone di lavorare in silenzio e con serietà per placare quella sete insoddisfatta di verità.
Non smetteremo di cercarla, quella verità.
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