L’Economist è tornato qualche giorno fa sul tema degli abusi sessuali sui minori all’interno della Chiesa. Lo ha fatto con tatto, dicendo di voler partecipare al processo sinodale promosso da papa Francesco e offrendo alla Chiesa un semplice consiglio: che i preti si sposino. Il giornale d’Oltremanica argomenta che il tema non è solo teologico, in quanto la Chiesa negli ultimi settant’anni ha attraversato una vera e propria tempesta che ha coinvolto migliaia di giovani vittime col risultato di una colossale perdita di credibilità. L’istituzione sacerdotale, per come oggi è concepita, sarebbe un ricettacolo perfetto per i pedofili, che ravvedrebbero nella vita presbiterale o un tentativo di redenzione o, più miseramente, un ottimo viatico per le proprie attività predatorie. Se la Chiesa avesse il coraggio di abolire la richiesta del celibato, sostiene il corsivo della redazione, improvvisamente si amplierebbe la platea di coloro che potrebbero candidarsi a diventare preti, isolando in modo più drastico chi vorrebbe cavalcare la vocazione per esercitare liberamente le proprie perversioni.
Il settimanale britannico chiude affermando che Roma sta facendo tantissimo per debellare il fenomeno degli abusi, ma che ciò non elimina la colpevole sciatteria di un’organizzazione che per un secolo ha protetto gli oppressori e intimato silenzio agli oppressi. L’abolizione del celibato, dunque, lungi dal risolvere tutti i problemi sul tavolo, favorirebbe certamente un processo virtuoso e, comunque, sarebbe una benedizione.
È chiaro che la posizione, qui riassunta in maniera volutamente articolata, si presenta in modo diverso da altre occasioni in cui il giornale ha lanciato invettive dure verso la Chiesa. Il tono aiuta a crearle nuovo spazio e ad ammettere che la proposta del più ascoltato settimanale finanziario del Regno Unito è sul tavolo da molto tempo, trovando appoggio di diverse conferenze episcopali del vecchio continente.
È anche giusto sottolineare che su questa vicenda esiste, a monte, una problematica che la teologia di Roma ha da tempo con il desiderio e, più in generale, con tutta la sfera sessuale. Tuttavia queste due considerazioni non sono rilevanti per la questione centrale dell’articolo, che riguarda da un lato l’identità del prete, dall’altro come questa identità si debba calare in questo nostro tempo.
Ovviamente non è questa la sede per squadernare il dibattito, eppure alcune osservazioni è possibile farle. In primis l’identità del prete non può essere ricavata dai problemi di “funzionamento” che tale figura oggi mostra: non si definisce mai qualcosa a partire dai suoi errori, perché l’obiettivo della Chiesa non è avere preti “funzionanti”.
Il punto di partenza per cogliere l’identità del prete è l’imponenza affettiva che, ad un certo punto, Cristo diventa per la loro vita. Il problema di oggi non è capire dove un prete non funziona, ma chi un prete ama, di chi si sente intimamente amico, a che cosa ha deciso di dare la propria vita. L’insorgere del Signore nella vita di un prete coincide con il desiderio – apparentemente assurdo – di poterGli dare tutto, anche se stessi, anche il proprio modo di amare.
Ora, il tema è tutto qui, questa donazione come deve avvenire? In quale forma? Qui non è giusto chiudere, non è opportuno rispondere con un canovaccio definito. Mentre invece è fondamentale cogliere che il cuore di un prete è il dono, la donazione di sé all’imponenza dell’avvenimento di Cristo nella propria vita. Questo fatto si staglia nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo.
Non è scorretto dunque chiedersi se, al tramonto del modello tridentino di cattolicità, non debba essere ridisegnata anche la figura del prete. Ma anche qui la questione non è quella posta dall’Economist, che dice che così avremmo più preti per la Chiesa, ma è di risposta alla chiamata che Cristo fa alla Chiesa dentro la storia. I cristiani non devono diventare moderni per non perdere “clienti”, i cristiani devono rispondere a Cristo, devono trovare la strada migliore per amarLo e servirLo in questo spazio di tempo che – a dispetto di tanti nostalgici – vive il tramonto della cristianità, il tramonto di un modello di Chiesa che porta con sé anche un modello di prete.
E questo ha implicazioni infinite: come deve vivere il ministero un sacerdote oggi? Indossando quali vestiti? Facendo che cosa? Lavorando? Ecco: davanti a noi il dilemma prende forma. C’è un’educazione cattolica su cui intervenire, che promuove una concezione della sessualità problematica e poco abile nel discernimento dei predatori, ci sono misure giuridiche da rafforzare – come sta facendo il Papa – e poi, non ultimo, c’è da recuperare il cuore della vocazione sacerdotale calata nel contesto di questa contemporaneità. Risolvere tutto dicendo “lasciamo che i preti si sposino” appare molto sbrigativo. Quasi una versione teologico-giornalistica del populismo politico.
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