“Mancò la fortuna, non il valore”: l’accostamento è ardito, lo so, probabilmente azzardato o forse ancora irriguardoso. Ma non è mia intenzione paragonare il motto che accompagna l’eroico sacrificio italiano ad El Alamein con una delle pagine più belle del ciclismo di oggi.
Giovedì 21 luglio 2022, 16 chilometri e 400 metri al traguardo della durissima tappa pirenaica, la numero 18, al Tour de France. Il top del ciclismo mondiale. Tadej Pogacar, secondo in classifica e con l’ultima frazione a cronometro che due giorni dopo lo vede favorito, attacca la maglia gialla Jonas Vingegaard nella discesa dal Col de Spandelles, ma in una curva secca finisce sul ghiaietto e vola a terra. Il rivale se ne avvede dopo qualche istante, potrebbe darci dentro, far mulinare le gambe, incrementare il vantaggio, chiudere lì la lotta per arrivare primo sugli Champ Elysees. Nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. Il ciclismo è anche questo, chi cade e chi s’invola, chi perde e chi vince, che piange e chi ride.
Fa parte del gioco eppure, “noblesse oblige”, il primo in classifica capisce dopo qualche istante che l’altro ha avuto un incidente e allora rallenta, frena, lo aspetta. Quando Pogacar arriva, un po’ frastornato e con una profonda escoriazione che sanguina sulla coscia sinistra, allunga la mano a Vingegaard in un fermo immagine che ha fatto in pochi minuti il giro del mondo e che rimarrà nella storia. Poi, rimessosi in testa, alza il pollice verso il rivale che ormai tale non è più e, giunto al traguardo staccato da lui di oltre un minuto, appena sceso di bici va ad abbracciarlo. Secondo stacco fotografico da incorniciare.
Ecco, in fondo la storia è tutta qui. La storia di due giovani uomini di 22 e di 24 anni per cui la rivalità si ferma davanti alla sofferenza, l’imperativo di vincere viene annullato dal dovere morale al rispetto. Il danese che da ragazzino giocava a calcio e che, gracile com’era, regolarmente perdeva, ha capito in un secondo che vincere facile, vincere con il rivale ferito a terra, avrebbe avuto un sapore amaro, quasi di sconfitta. E l’ha atteso. Lo sloveno, anch’egli calciatore prima di passare al ciclismo, non è arrivato secondo: ha vinto anche lui. Roba da libro Cuore o da feuilletton di fine Ottocento? No, roba di un mondo a sé all’interno del più grande mondo fatto di guerre e di pugnalate alla schiena, così che l’altro è spesso nemico invece che compagno di strada, un mondo a pedali dove non tutto è pulito e dove non sempre vince il migliore, ma dove c’è ancora spazio per l’uomo tutto intero.
“Mancò la fortuna, non il valore” è il motto dell’uno, “Ha vinto il valore, non la fortuna” è il motto dell’altro. È accaduto nello sport di fatica per eccellenza e nella più grande corsa ciclistica del mondo, da tempo un’azienda che fattura di milioni di euro o di dollari, ma in cui si può essere ancora esseri umani invece che macchine da soldi. Perché il cuore vale sempre più dei “garuni” (i polpacci del vecchio Alfredo Binda).
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