Giugno 2022: sono al ristorante Cris sul lago di Como. È un caldo venerdì sera. Dopo la crisi dovuta alla pandemia, si assiste al ritorno degli stranieri. Soprattutto europei: inglesi, francesi, tedeschi. Ma la buona notizia è anche il ritorno, in massa, degli americani. Tutti i tavoli sono prenotati. Arriva una coppia di francesi e quattro ragazzi tedeschi. Chiedono un posto a tavola, ma Ivan, il proprietario, allargando le braccia, così risponde: “Il posto c’è, ma mi manca il personale. Purtroppo non posso accontentarvi…”. È un ritornello che abbiamo sentito spesso negli ultimi tempi. Ma altrettanto spesso si ergono quelli che puntano il dito sulle paghe da fame, gli orari, il sabato e la domenica.
Utile a questo punto raccontare un altro episodio. Siamo a Milano in una società di catering. Finita la pandemia, il lavoro è ripreso alla grande: eventi, matrimoni, convention. Ma il cuoco va in pensione e dev’essere sostituito. Il titolare si muove per tempo e tre mesi prima della data fatidica, mette inserzioni, pubblica la ricerca sui siti, di tutto di più. Lo stipendio è di tutto rispetto, 2.300 euro al mese, tempo indeterminato, tredicesima e quattordicesima. I tre mesi sono passati, ma ancora oggi non ha trovato nulla.
Ma il problema non sta solo nella ristorazione. Anche l’industria soffre. In Brianza, tanto per fare un esempio, sono molte le aziende di mobili che cercano disperatamente manodopera. Per non parlare della metalmeccanica. Oggi trovare un saldatore è un’impresa titanica. Non va meglio il comparto della logistica. Mancano all’appello circa 20mila camionisti. L’elenco potrebbe continuare a lungo.
A questo punto la domanda che ci si pone è: ma dove sono i tanti disoccupati di cui parlano le statistiche? Qualcuno obietta che è soprattutto il Sud il problema. Vero, ma anche lì ci sono ristoratori che lamentano le stesse problematiche dei colleghi… padani.
In molti tirano fuori la questione del Reddito di cittadinanza. Sottoscrivo in toto. È stata promulgata una legge che è giusta nelle intenzioni, aiutare le tante famiglie in difficoltà economica, ma totalmente sbagliata nella realizzazione. E che ha fatto il gioco di fancazzisti e politicanti (leggi M5S). Sarò, dunque, fra i primi a sottoscrivere l’eventuale referendum proposto da Renzi per l’abolizione del provvedimento.
Ma il problema non sta solo lì. Allarghiamo l’orizzonte. Di chi la colpa quando si sente parlare di ragazzi dai sedici ai vent’anni e oltre assolutamente inoccupati? Dove sono i loro genitori? Che tipo di educazione gli hanno fornito?
Ricordo mio padre Mario. Finita la terza media mi disse a chiare lettere che, durante l’estate, dovevo trovarmi qualcosa da fare. Mi mandò da mio cugino a fare l’idraulico. Orario classico brianzolo: 8-12, pausa pranzo, 13.30-18.30. Più quattro ore la mattina del sabato. Affiancavo il Paschetto. Lui saldava, io gli passavo i tubi per il riscaldamento da un pollice, mezzo pollice, tre quarti. Utilizzavo anche una macchina per la filettatura: grasso e trucioli di metallo da tutte le parti. C’era, poi, il lavoro sui tetti per la posa dei canali di scolo.
Famiglia e lavoro: questi i due cardini della vita di mio padre Mario. Nel corso del mio vagabondaggio lavorativo – idraulico, venditore di lampadari ed enciclopedie, insegnante, giornalista, editore – non è mai entrato nel merito delle mie scelte. Nemmeno le capiva, ma non mi ha mai fatto mancare il suo sostegno. E anche negli ultimi anni, fiaccato dal Parkinson, sul letto della casa di cura, quando andavo a trovarlo, mi ripeteva sempre la stessa domanda: “Mal va il lavurà?” (“Come va il lavoro?”).
Questi sono gli esempi di quelli che hanno “tirato su” la mia generazione (sono del 1954). Poi, forse, qualcuno se n’è dimenticato. È diventato ricco, chi più chi meno. Si è scordato che il lavoro è sudore e ansia. Ha voluto evitare la fatica ai suoi figli e così ha fatto crescere una generazione di sfigati. Gente che quando viene ai colloqui chiede: la paga, se si lavora il sabato e la domenica, le ferie e altro ancora.
Non è il personale che manca, ma l’etica del lavoro. E quella, se non te l’hanno insegnata, è duro impararla.
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