Meglio del previsto. Forse troppo. La risposta dei mercati finanziari alla crisi di governo italiana è stata meno violenta del previsto. Certo, i Btp sono andati sotto pressione, ma niente a che vedere con le ondate di vendite che nel 2011 portarono alla cacciata di Berlusconi sommerso dallo spread. Intanto la Borsa Valori, dopo la sbandata emotiva di prima mattina, ha recuperato posizioni, al punto da chiudere con un modesto ribasso, inferiore a un punto percentuale.
Ma a condizionare la giornata, a ben vedere, più che le evoluzioni della politica nostrana, state le decisioni della Bce, che hanno segnato due novità rilevanti: 1) l’aumento dei tassi, il primo dopo 11 anni, più robusto del previsto accompagnato dall’annuncio che altri seguiranno; 2) l’annuncio dello scudo anti-spread, accompagnato da varie condizionalità, ma, soprattutto, affidata alla discrezionalità della banca.
Un compromesso tra i “falchi”, che incassano l’aumento del costo del denaro, e le “colombe” che avranno a disposizione un potente strumento anti-speculazione. Ben pochi speculatori se la sentiranno di sfidare la Bce che potrà agire senza limiti di spesa e senza condizionalità. E questo spiega, almeno per ora, l’efficacia del salvagente anti-spread.
Ma la realtà è che il costo del finanziamento del debito è in forte ascesa: sale il rendimento dei decennali, il titolo biennale rende addirittura di più dell’emissione greca di pari durata. Non solo. Il rialzo dei tassi, per ora, non si è tradotto in una ripresa dell’euro, pur necessaria per contenere l’inflazione e la bolletta energetica.
Insomma, si profila una congiuntura sempre più difficile, con una sovrattassa che il Bel Paese si è inflitta, come da tradizione: solo l’inaffidabilità della classe dirigente può spiegare la forbice che corre tra Italia e Spagna, un maggior costo di una ventina di miliardi nei confronti di un Paese che, a parte il minor debito pubblico (il 115% contro il 150%), non ha particolari punti di forza rispetto a noi.
Lo scudo anti-spread, a questo punto, altro non è che la frontiera invalicabile della finanza pubblica italiana. Chiunque salga al Governo dovrà rispettare i paletti posti da Francoforte, a suo insindacabile giudizio “discrezionale”. Ovvero: a) osservanza delle norme fiscali Ue e l’assenza di procedure di infrazione; b) assenza di sbilanci macroeconomici severi: c) sostenibilità fiscale; d) politiche economiche sane e sostenibili e in linea con gli impegni presi con il Recovery and Resilience Facility.
Niente di eccezionale se al Governo c’è Mario Draghi. Quasi impossibile se a governare ci sarà qualcuno che chiede scostamenti di bilancio nell’ordine di 50 miliardi (vedi Salvini) o altri interventi straordinari. Sono clausole di garanzia a tutela dei creditori che suonano anche a tutela della rotta della finanza pubblica, alle prese con i guasti dell’eredità giallo-verde. E nei prossimi mesi dedicati all’ordinaria amministrazione, Draghi avrà modo di levarsi più di una soddisfazione, dopo aver tanto penato dietro a bagnini e tassisti per introdurre quella legge sulla concorrenza che tanti non vogliono.
È in questa cornice che il Bel Paese s’avvicina agli esami di settembre, come quegli studenti che si affannano a finire i compiti delle vacanze o a recuperare in vista delle verifiche. Le forze politiche di casa nostra si presentano all’appuntamento senza grandi novità programmatiche: tra i partiti più importanti nessuno ha in agenda una terapia contro il debito pubblico e sul fisco prepariamoci ad ascoltare le consuete sciocchezze sulla flat tax. Non si parlerà di ricette per la crescita. E l’ambiente resterà uno slogan. Eppure il tempo che corre da oggi al 25 settembre può essere occupato in maniera virtuosa. Innanzitutto per presentarsi al voto con proposte comprensibili e pronte a essere tradotte in provvedimenti.
Ad esempio, sul taglio delle tasse sul lavoro e su quale tipo di salario minimo (temi già dibattuti da molti mesi con poco costrutto) è bene che ogni coalizione esponga ora con la massima chiarezza e nei dettagli le idee in materia, senza limitarsi a generiche enunciazioni poi “aggirabili” una volta al Governo. Servono scelte che rasserenino risparmiatori e investitori: non promesse insostenibili per vincere le elezioni, ma proposte che non siano in deficit e che portino avanti le misure previste dal Pnrr europeo (ci sono altri 55 obiettivi previsti entro dicembre), al di là del negoziato – previsto da una specifica clausola – per allungare le scadenze in caso di elezioni. Si affronteranno questi temi “caldi” o si rinvierà il tutto? Si cercherà di trovare una quadra tecnica al pasticcio del superbonus o si sceglierà la via dello schiamazzo che, purtroppo, spesso ha pagato, almeno all’inizio?
È lecito, al proposito, essere pessimisti: la vera preoccupazione dei guru dei partiti, colti in contropiede dalla scadenza elettorale estiva sarà come adattarsi a una campagna elettorale balneare. Difficile che la tv (o gli stessi social media) possano avere sotto la calura estiva lo stesso peso delle serate invernali popolate di testimonial pro-Russia che hanno raccolto con la crisi quanto seminato in questi mesi di battaglie mediatiche contro Draghi l’atlantico. Sarà divertente scoprire cosa si inventeranno gli uomini immagine. La più gettonata sarà senz’altro Giorgia Meloni, ma Salvini, pur in declino, potrebbe stupire dal palco del Papeete 2. E non va sottovalutato Di Maio, più tonico e telegenico di Conte, spompato dalla lunga sfida a Draghi. E chissà che alla distanza non sia lui, il banchiere che ha pure un cuore, l’uomo destinato a spuntarla nel lungo termine: con la sua uscita di scena a schiena ritta super Mario ha evitato di cadere nelle trappole di fine legislatura e ha mantenuto intatto l’appeal dello statista, l’unico con un filo diretto con Bruxelles, Francoforte e Washington.
A dispetto dei partiti che oggi fingono di piangerlo, ma che, compatti, gli hanno rifiutato il Quirinale. Per ora.
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