Il gruppo statunitense Schlumberger è noto quasi solo agli addetti ai lavori: è comunque il numero uno globale nella fornitura di attrezzature e servizi per l’estrazione di petrolio. Il numero due, Halliburton, sempre americano, è meno sconosciuto per una ragione particolare: suo Ceo – fino alla candidatura ed elezione nel 2000 – è stato Dick Cheney, vicepresidente Usa con George Bush. Quando tre anni dopo gli Stati Uniti hanno invaso e occupato l’Iraq per regolare definitivamente i conti con Saddam Hussein, Halliburton è stata destinataria di una megacommessa pubblica da 7 miliardi di dollari, finalizzata a ricostruire le infrastrutture di Baghdad, semidistrutte dalla Prima Guerra del Golfo e poi da lunghe sanzioni.
Negli ultimi giorni, entrambi i gruppi hanno comunicato i risultati del secondo trimestre. Fra marzo e giugno Schlumberger ha visto balzare i suoi ricavi del 20% e i suoi profitti raddoppiare fino a quasi un miliardo di dollari. Le previsioni di giro d’affari per l’esercizio annuale sono state alzate da 23 ad almeno 27 miliardi di dollari. Il titolo – in una Wall Street sotto pressione da settimane per il mix di inflazione, mosse della Fed sui tassi d’interesse e attese di recessione – ha guadagnato il 4,3% in una sola seduta. Le comunicazioni della società e i commenti degli analisti non hanno potuto non menzionare “i benefici” portati a Schlumberger dal prolungarsi della guerra scoppiata fra Russia e Ucraina. I nuovi muri eretti dalla crisi geopolitica nel mercato del petrolio hanno stimolato la produzione negli Usa e ridisegnato la mappa produttiva in altre aree del “mondo libero”. I conti Halliburton, come si usa dire a Wall Street , “hanno cantato la stessa canzone”: il fatturato di periodo è aumentato del 40% e l’utile effettivo è stato il doppio di quello del secondo trimestre 2021.
Soltanto una settimana fa – mentre l’economia “civile” sta fronteggiando tutti gli oneri e i rischi di una spirale stagflazionistica – dalla vera “industria della guerra” è giunto intanto un messaggio obliquo nella forma ma inequivocabile nella sostanza. “I governi occidentali devono fornirci segnali chiari sulla loro domanda”, ha detto Kathy Worden, Ceo di Grumman Northorp: uno dei cinque “top contractor” del Pentagono. “La programmazione produttiva per tenere adeguate le scorte negli arsenali – ha sottolineato Worden – non è costruita al momento nella prospettiva di una guerra prolungata in Ucraina“. Grumman produce, fra l’altro, i cannoni automatici di medio calibro Bushmaster già trasferiti in abbondanza all’esercito ucraino dagli arsenali dell’Us Army. A fine maggio il Pentagono ha intanto piazzato a Raytheon – concorrente di Grumman, Lockheed Martin, Boeing e General Dynamics – un ordine da 625 milioni di dollari per produrre 1.300 missili portatili Stinger, largamente usati in Ucraina: erano 18 anni che l’esercito americano non ricostituiva i magazzini.
Nel frattempo sui media internazionali si intensificano gli echi del gran lavoro di uffici studi e dipartimenti strategici di governi, grandi banche e multinazionali in vista dell’asta da 750 miliardi di dollari che verrà indetta per la ricostruzione dell’Ucraina. Una stima minima: a distruzioni odierne. Ancora due mesi di guerra (o quattro o sei o dodici) e naturalmente si gonfierebbe non solo la spesa militare (immediata e prospettica nella nuova “guerra fredda”), ma anche il fabbisogno per la “Nuova Ucraina”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.