Dirigo il corso di formazione dei medici di medicina generale (Mmg) in Lombardia; ho il privilegio di frequentare i giovani medici in formazione e i loro colleghi più maturi che, insieme a specialisti ospedalieri, li affiancano. Non ho competenze e ruolo per discutere del futuro della medicina generale (Mg); quello che posso offrire al dibattito sono alcuni paradossi che incontriamo. Chi ha competenza e ruolo potrà forse trovare utili questi spunti per aiutare al cambiamento necessario.
L’incompatibilità
Prima delle norme di emergenza, il tirocinante di Mg non poteva assumere alcun incarico tranne sostituzione, continuità assistenziale festiva e turistica. Il giovane medico era considerato esperto (visitare pazienti altrui non è facile!) nei fine settimana, ma dal lunedì al venerdì tornava inetto a svolgere attività professionale. La normativa emergenziale consente ora ai tirocinanti di svolgere incarichi convenzionali riconosciuti come periodi formativi. È un passo avanti, che ci mette al pari di altri paesi europei. Soprattutto, assumendosi una responsabilità, si impara meglio.
Se il medico è iscritto all’ordine, perché resta “studente” puro? Perché non può formarsi in apprendistato come fecero i suoi predecessori e come fanno i suoi colleghi europei, esercitando la professione? La questione, a ben guardare, si impone per tutte le specialità. Esistono proposte di autonomia graduale e il cosiddetto “decreto Calabria”, ma si può procedere forse con meno timidezza?
Il “mito” della borsa
L’importo della borsa dei tirocinanti di Mg è metà di quella degli altri specializzandi. La sperequazione di trattamento ha contribuito a far percepire il corso di Mg come di “serie B”. Per anni la questione della borsa ha rappresentato un “mito”, nel senso che a lungo si è invocato il suo aumento in termini di numero e di importo economico.
Il superamento delle incompatibilità ha reso evidente che l’aspetto critico della borsa è la sua stessa esistenza. Essa non dovrebbe esistere. In Gran Bretagna e in Portogallo i tirocinanti non hanno borse di studio, ma uno stipendio (nel caso inglese 53mila euro), perché sono inseriti nel sistema come medici a tutti gli effetti, ovviamente seguiti da colleghi più esperti, con autonomia progressiva.
La specialità universitaria
Si discute se elevare il corso a specialità universitaria. Vi sono valide ragioni e il sistema universitario è necessario alla Mg. Credo, tuttavia, vi sia il rischio di affrontare la questione dalla coda. Al netto del paradosso semantico (una “specialità” di medicina “generale”) e dei problemi organizzativi didattici, quello che innanzitutto serve oggi è la Mg “durante” il percorso di laurea, non solo “dopo”.
L’introduzione dei tirocini abilitanti e gli incarichi durante la pandemia hanno portato i giovani a scoprire e scegliere la Mg con entusiasmo. Dopo anni nei quali il corso era opzione residuale, oggi la stragrande maggioranza dei corsisti è convinta della scelta perché ha scoperto durante il corso di laurea l’attrattiva di questo lavoro. Forse, quindi, si può iniziare potenziando la presenza della Mg all’interno dei corsi di laurea e, da qui, rafforzare le competenze disciplinari oggi mancanti per uno sviluppo di percorsi post-laurea.
La permeabilità delle carriere
Molti medici lasciano l’ospedale per frequentare il corso. Non dipende tanto e solo da un fenomeno di burn out, quanto soprattutto – così dicono i nostri tirocinanti – dal desiderio di seguire meglio i pazienti. La questione merita comunque attenzione perché rischia di mettere in crisi le aziende, che già faticano a trovare personale.
Quello che è oggi un problema, però, può essere un’opportunità, se in generale si rendessero le carriere mediche più permeabili, meno separate. Un giovane medico che dedica la prima parte della propria professione all’ospedale e poi diventa Mmg rappresenta una dinamica virtuosa, che il sistema formativo dovrebbe incentivare, non penalizzare come fosse una anomalia. Oggi questo professionista deve ricominciare da capo, mentre si potrebbero trovare percorsi di accesso e accompagnamento più semplificati ed efficaci. A ben guardare, una popolazione di Mmg con significative esperienze ospedaliere porterebbe di fatto e inevitabilmente a una reale integrazione tra ospedale e territorio.
Serve un corso?
In Lombardia quasi il 70% dei tirocinanti ha già un incarico professionale, riconosciuto come formazione. Non è più un corso per “diventare Mmg”, ma un corso “di Mmg”, una comunità di pratica di professionisti, seguiti e che si aiutano a vicenda.
La gran parte dei Mmg più anziani non ha mai frequentato alcun corso. Essi entrarono in convenzione subito, saturando i posti disponibili. Da allora, per anni, il mercato è rimasto bloccato. In questi mesi – pensionandosi la pletora degli anni Cinquanta e Sessanta – ci troviamo di colpo in carenza, ma per anni il corso diplomava giovani senza sbocco professionale.
Serve, quindi, ancora il corso? Così come è organizzato no. Tutti invocano la sua riforma. La revisione dovrebbe però accompagnarsi a una più generale revisione del sistema di offerta, della convenzione, dell’organizzazione, dell’accesso alla professione, dei massimali, ecc.; il rischio è che, superata l’emergenza della mancanza di Mmg, si torni di nuovo a saturare subito l’offerta e impedire l’ingresso di nuove leve.
“Uno vale uno”
Ci sforziamo di formare al meglio e spingere i giovani a innalzare la qualità. Una volta diplomati, però, molti di loro si scontrano con una realtà della Mg nella quale “uno vale uno” e tutti sono uguali. Non esiste un reale sistema di valorizzazione e incentivazione e i professionisti si trovano incolpevolmente a non rispondere di fatto a nessuno. Così, nel troppo generico perimetro degli adempimenti previsti in convenzione, i fannulloni e i (tanti) professionisti seri risultano uguali. I nostri giovani, che con entusiasmo ed energia introducono innovazioni e si applicano con dedizione, soffrono questa situazione, che penalizza quella che per loro è “la professione più bella”.
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