La voce selvatica del muezzin echeggia potentissima nella notte, proprio sopra alle nostre teste: il muezzin pare scatenato. Gli replica, alle sei esatte del mattino, ù: è il rintocco dell’Ave, qui dove la prima Ave Maria della storia è stata spifferata in mondovisione da una figura d’arcangelo. I pellegrini, risvegliatisi, quando si alzano s’imbarcano diritti verso il Monte Tabor, “il monte della luce”. Salgono blindatissimi dentro i furgoni e quando mettono piede a terra sulla (non) montagna, assomigliano tanto a dei novelli crociati, ciascuno con un suo “santo” sepolcro d’andar a liberare. C’è del sonno sulla montagna, ch’è poco più che una collina: “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno” (Lc 9,32).
Il nemico, dunque, è molto più feroce del saracino: è un nemico interiore, siamo noi che ci siamo stancati di credere ancore prima d’iniziare a combattere, forse. C’è un avversario fetido da andare ad affrontare: è la morte dell’anima. È stato quassù che Cristoddìo pianificò un’esplosione di luce, tanto che “quando si svegliarono, videro la sua gloria”. È sempre una questione di bellezza, mascherata di gloria: il cristianesimo – e qui ogni pellegrino lo ritocca con la sua mano – rinasce soltanto da un’esperienza di bellezza sfolgorante. Non c’è nulla d’alternativo che faccia ribattere il cuore in egual misura: nel brullo di questo colle, ci si sente inibiti da un enorme stupore. E anche se nel cuore di qualcuno è buio pesto, ci si sforza di tener spalancati gli occhi, in attesa di un sonno diverso: che consoli il cuore, accarezzando le ferite. “Non temere, figlio!” La vera novità del cristianesimo non è tanto quella che Dio si è fatto carne, ma che sia sempre della nostra carne. E noi della sua.
Tutti giù, poi, come quella volta: la tentazione di trovare un riparo definitivo alla fatica del vivere, è la medesima di Pietro e compagnia fiacca. Cristo, in tutto questo tempo, non ha mutato idea: “Forza, tornate giù: a rinfrancare le membra flaccide di chi non è stato portato quassù”. La Grazia, lo si sente dappertutto qui, è una responsabilità da restituire, non una comodità da usufruire.
Verso Cana di Galilea, il paese degli otri moltiplicati all’infinito, qualche lacrime sul bus tradisce buriane che, lente, iniziano a venire a galla. Questa, dove Cristo poggiò i piedi, resta una terra rischiosa: piano piano, all’insaputa della mente, la memoria fa venire a galla tutto, è una sorta di rivisitazione, un “tutti i nodi arrivano al pettine” in versione cortese. Arrivano, però! E le immagini fioccano dritte come frecce: strappano, si conficcano, invertono all’improvviso direzione, si mettono a gridare. Ognuno ha la propria mappa del mondo e quella dobbiamo guardare per capire la nostra geografia interiore. Per far sì che il “vino buono” di Cana non diventi aceto nel giorno in cui Cristo, patendo come un cane, ci chiederà da bere.
Tra i pellegrini si sciolgono le confidenze: in ogni passo si nasconde anche un passaggio. Magari condiviso: c’è chi è tornato qui per l’ennesima volta, chi ci è venuto per la prima volta, chi ha risparmiato una vita per venirci, chi è giunto portandosi appresso il ricordo di chi avrebbe voluto venire ma non c’è più. C’è chi ha vinto il viaggio ad una lotteria, chi l’ha ricevuto in regalo al compleanno e, fino al giorno prima, immaginava d’andare a Sharm-el Sheik o Capoverde. Non importa il perché del viaggio: a Nazareth – “(Hic) Verbum caro factum est et habitavit in nobis” – la sorpresa è di casa: “A stupirmi, di fronte a questa grotta – è la guida a confidarsi di fronte a tutti – è che qui si fa memoria di un qualcosa d’indecifrabile: che nulla è impossibile a Dio”.
Nemmeno importa risvegliare l’apatia del cuore, l’accidia dei pensieri. C’è uno sfolgorio quasi arcaico davanti alla grotta dell’Annunciazione: l’ultima stanza della casa della Vergine è la prima casa della cristianità. È la terra dove Cristo fu bambino, ragazzetto, giovanotto e vide il mondo e lo capì come nessun altro l’aveva mai capito prima di lui. È stato qui che ha fatto i capricci, dove ha giocato, studiato, imparato: dove ha iniziato a parlare all’uomo e alle sue fisime. Non si tratta di cambiare il corso delle cose, ma di offrire loro un significato tutto nuovo a partire dal Dio che si fa possibile in noi. Di questa storia ci sono simboli sparsi ovunque: volerli spiegare è rischiare di non capirli, pregarli è ascoltare quello che ci vogliono dire.
Che, proprio qui, tutto è iniziato: punto e a capo. Non era affatto scontato.
(2 – continua)
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