Le televisioni italiane, ahimè anche pubbliche, dimostrano di non avere molta stima e rispetto per chi, soprattutto d’estate, le guarda. E a seguirle, in questi mesi sono soprattutto coloro che non hanno altre alternative non potendosi permettere di andare in vacanza e godere finalmente di un mondo che non sia quello loro abituale: faticoso, noioso perché abitudinario e nel quale sono costretti a vivere e talvolta a sopravvivere senza soluzione di continuità.
Soprattutto chi programma i film per l’estate pensa che anche gli italiani costretti a rimanere a casa debbano avere diritto al loro svago e così, dopo aver per anni propinato replay delle più scombinate trasmissioni oppure i film del grande Totò, sembra abbiano ora scommesso su altri generi. Sempre più spesso attingono a film appartenenti ad un certo filone nato alla fine degli anni 70 ed esploso poi nei primissimi anni del decennio successivo. Un filone fatto di professoresse provocanti, supplenti procaci e Pierini, tanti Pierini quante sono le barzellette che li riguardano a proposito delle loro “esperienze” scolastiche: barzellette che servirono in quegli anni da soggetto a tanti film ambientati appunto a scuola.
Se facciamo un confronto su come il cinema di altri Paesi ha trattato il tema della scuola rispetto a quello italiano, generalmente il sentimento che prevale è quello della vergogna. Non si creda tuttavia che certa diffusa desacralizzazione della nostra scuola sia univoca responsabilità di questi nostri film di pessimo gusto e debitori, oltre delle barzellette, anche del genere dell’avanspettacolo praticamente scomparso già alla fine degli anni 50. Brutti film che sono tuttavia speculari alla destrutturazione della scuola italiana che si era già affermata non a caso a partire dalla fine degli anni 60 attraverso molte delle istanze del nostro Sessantotto. E colpevole di questa decadenza, che sembra da allora non aver avuto pause, fu soprattutto anche la nostra classe dirigente, che proprio in quegli stessi anni in cui certo cinema (?) riempiva le sale, non seppe, o non volle, adeguare e rinnovare la scuola che finalmente stava allora diventando, anche alle superiori, di massa.
E di massa furono i fallimenti a cui i ragazzi provenienti soprattutto dalle classi sociali più svantaggiate andarono incontro. Naturale che quei film trovassero una felice accoglienza soprattutto in chi aveva molte recriminazioni da fare rispetto alla propria esperienza scolastica e che forse avevano più di un motivo per deriderla. D’altra parte il cinema “serio” in quegli anni non fu quasi mai attratto dal raccontare l’autentica e problematica realtà della nostra scuola.
Dovremo attendere il 1992 perché finalmente vi fosse un film in grado di rappresentare la difficile realtà delle scuole di molte periferie delle nostre città del Sud. Si trattava di Io speriamo che me la cavo, liberamente tratto dall’omonimo libro di Marcello D’Orta, nel quale l’allora maestro elementare, diventato poi un importante scrittore, narrava, utilizzando i temi dei suoi allievi, la sua esperienza in una scuola della periferia napoletana. Il film fu diretto da Lina Wertmüller e interpretato da Paolo Villaggio.
Un altro film che si distacca senz’altro dalle pessime prove sopra ricordate fu La scuola di Daniele Lucchetti. Girato nel 1995 con l’intento di rappresentare in generale la realtà della scuola superiore italiana e sopratutto dei suoi docenti, pecca tuttavia nell’insistere su certo macchiettismo che era stato presente anche nella rappresentazione della scuola che Fellini ci aveva dato nel suo Amarcord del 1973. Macchiettismo che era invece stato del tutto assente, ma siamo agli inzi degli anni 60, nel Maestro di Vigevano di Elio Petri, forse l’esempio più alto che il nostro cinema ci abbia dato nel raccontare il mondo scolastico. Un film, quello di Petri, tratto fedelmente dal capolavoro omonimo di Lucio Mastronardi; un grande scrittore da tempo purtroppo quasi del tutto dimenticato e che, come pochi altri, ci narrò le grandi contraddizioni e i drammi che accompagnarono la nostra vera rivoluzione industriale degli anni 50 e 60.
Negli anni 90 e 2000 ci saranno altri film ispirati al mondo scolastico, soprattutto quello delle scuole superiori, ove a prevalere saranno tuttavia altre storie a cui la scuola fa solo da sfondo rispetto ad altri problemi dell’adolescenza e della giovinezza. Finalmente nel 2013 ci sarà il film di Daniele Gaglianone La mia classe che ci racconta in maniera originale, anche se documentarista, l’insegnamento della lingua italiana ad un gruppo di giovani extracomunitari che aspirano ad ottenere il permesso di soggiorno.
Invece ben più incisivi e numerosi i film dedicati alla scuola da parte del mondo del cinema di altri Paesi, soprattutto se pensiamo alla Francia a partire dal lontano Zero in condotta di Jean Vigo a I 400 colpi di Truffaut sino ad arrivare a La classe di Laurent Cantet e al recente, bellissimo Il professore cambia scuola di Ayache-Vidal. E insieme a questi tanti altri capolavori che invece mancano quasi del tutto nel nostro cinema, che avrebbe avuto più di un’occasione per raccontarci una storia simile a quella, per esempio, narrata in Non uno di meno di Zhang Yimou.
Anche queste differenze sono forse indicative per ricordarci quale sia l’interesse che un Paese ha o meno nei confronti della scuola: soprattutto quando la si racconta attraverso la rielaborazione di barzellette sconce e volgari.
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