Sono un docente di italiano, storia e geografia in una scuola media paritaria e, approfittando della pausa estiva che permette di avere il tempo per ripensare al proprio lavoro, vorrei proporre alcune riflessioni a partire da due incontri significativi che ho fatto negli ultimi mesi: quello con il cardinale Angelo Scola, in occasione di un’intervista che ha concesso per i quarant’anni di fondazione della mia scuola, l’Istituto Aurora Bachelet di Cernusco sul Naviglio, e quello con la dottoressa Vigil Pilar, docente del corso Teen Star tenutosi nelle aule dell’Università Cattolica di Milano alla fine di giugno.
Si tratta di due personalità con formazioni e provenienze molto diverse – il primo cardinale della Chiesa cattolica, arcivescovo emerito di Milano, la seconda una ginecologa cilena, ideatrice di un percorso di educazione all’affettività fondato su un’antropologia cristiana –, ma in entrambi ho scoperto sguardi, provocazioni e prospettive di grande utilità a chi oggi si trova a lavorare in ambito scolastico e abbia il desiderio di farlo dentro una prospettiva cristiana.
Diverse sono le sollecitazioni che un insegnante si trova ad affrontare tutti i giorni, in un mondo che rapidamente – e drammaticamente – cambia. La pandemia con tutto ciò che si è portata dietro come scuola a distanza e distanziamento sociale, sembra aver segnato un solco profondissimo, soprattutto in chi proprio in questo periodo stava affrontando la sua crescita e formazione. Ma non ci sono solo i cambiamenti dei ragazzi (in ogni epoca i ragazzi cambiano, a partire da ciò che vivono personalmente e socialmente): è la direzione stessa della scuola a cambiare, per quanto rimanga vero che si tratta di una delle istituzioni più reazionarie. Tra ritardi, incapacità e resistenze, anche a scuola sta approdando la rivoluzione digitale, con tutte le conseguenze che questo comporta; a livello generale, e non solo di qualche singolo docente, si sente parlare di tecniche didattiche e pedagogiche, che vengono, almeno formalmente, richieste sempre di più ai docenti.
Proprio questo contesto, io penso, pone un interrogativo a chi dentro la scuola vuole educare secondo una prospettiva cristiana. Un interrogativo che non è dubbio o sospetto su ciò che si ha davanti, ma curiosità e passione di affrontare la realtà nella sua totalità. Eppure, proprio su questa parola importante e molto nota, totalità, credo occorra interrogarsi più a fondo, alla luce di quanto accennato prima.
Il corso Teen Star, cui ho avuto il privilegio di partecipare, propone un’educazione all’affettività e alla sessualità per gli adolescenti secondo quella che definisce una prospettiva olistica, che consideri, cioè, l’uomo secondo la totalità delle sue dimensioni: fisico-biologica, intellettuale, emotiva, spirituale e sociale. In tale prospettiva, dunque, non solo non si potrà tralasciare alcuna di queste dimensioni (spirituale compresa), ma ognuna di esse, con le sue specificità, dovrà essere considerata in relazione alle altre.
Ora, se questo è essenziale quando si parla di educazione all’affettività, a maggior ragione lo sarà nel momento in cui si parla di educazione in generale. Ma proprio qui sta il punto critico: che cosa vuol dire educare in questa prospettiva a scuola? Noi insegnanti siamo in grado di offrire una tale educazione? Non siamo, spesso, ancora troppo inclini a concentrarci solo sulla dimensione intellettuale del ragazzo, relegando tuttalpiù il resto a una cornice di cui tenere conto, ma non sostanziale e, soprattutto, non da educare? Non rischiamo anche noi, alle volte, di fronte ai cosiddetti “casi difficili”, di cercare in qualche esperto (essenziale tante volte, a patto che non sia una deresponsabilizzazione!) la risposta giusta, finendo per considerare la persona divisa in tanti aspetti diversi, anziché unita in diverse dimensioni? La didattica per competenze, le competenze trasversali o le character skills di cui tanto si parla, per quanto si stacchino da un modello improntato solamente sull’intelligenza, non offrono, comunque, uno sguardo parziale sull’educazione del ragazzo? Non sono domande retoriche! Vorrei, anzi, lasciarle aperte, perché (chissà) possa aprirsi un dialogo e un confronto.
Come fare, dunque? Come educare secondo una prospettiva che consideri tutte le dimensioni dell’umano? Parto da alcune parole dell’intervista al cardinale Scola per una risposta, che vuole essere solo l’inizio: “L’educazione è una relazione giusta e creativa con la realtà totale, con tutta la realtà. Quindi, l’urgenza fondamentale di un’impresa come la scuola è quella di accompagnare i ragazzi, come persone e come comunità, all’incontro con la realtà totale, che è per sua natura drammatica (non tragica), perché è in continua evoluzione e in continuo cambiamento, è sempre un intreccio di bene e di male, di proposizioni e di problemi, che implicano entusiasmo o depressione. Il difficile dell’educazione è che non si può non restare aperti al tutto, ma per restare aperti al tutto bisogna tirar fuori tutte le dimensioni costitutive dell’Io, a partire da quelle più nascoste, più profonde – gli psicanalisti direbbero dall’inconscio – per arrivare alla capacità di crescere nell’affezione, nell’attaccamento equilibrato agli altri e, in ultima analisi, al riconoscimento del Fattore (con la maiuscola) che ha generato questa realtà e che all’interno di questa realtà genera figli, bambini, adolescenti, adulti, anziani e così via. […] Nell’educazione il punto di appoggio solido è il rapporto dell’educatore con l’educando”.
Se sono vere le affermazioni del cardinale Scola, se centrale nell’educazione è accompagnare i ragazzi all’incontro con la realtà, se centrale è il rapporto tra educatore ed educando, ecco allora che il punto di partenza per rispondere alle questioni poste in precedenza è anzitutto il nostro rapporto con noi stessi e con la realtà che ci circonda. Siamo noi i primi a dover considerare tutte le dimensioni del nostro umano, ad averne consapevolezza e simpatia, a voler continuamente crescere e scoprire qualcosa di noi nel rapporto con tutto ciò che ci circonda. Trattandosi del rapporto nostro con la realtà e nostro con il ragazzo rimane qualcosa di drammatico e non prestabilito, ma proprio per questo possiamo parlare di avventura educativa; un’avventura nella quale, se non ci sottraiamo, si iniziano a svelare e a educare tutte le dimensioni dell’umano.
Mi rendo conto che, così dicendo, molte domande e problemi rimangono apparentemente irrisolti. Ma, a ben guardare, proprio ponendo un solido punto di partenza nella relazione tra educatore ed educando e, quindi, nella solidità umana dell’educatore, ogni altra questione potrà essere posta e affrontata.
Del resto, questo non vuole essere che un inizio di dialogo.
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