È nel 1836, in piena età della Restaurazione, che una giovane rampolla di famiglia nobile, la ventiduenne Paola Di Rosa, chiede al padre il permesso di dedicarsi, in spirito di carità, a curare in ospedale gli ammalati di colera, epidemia gravissima esplosa in quegli anni. Ma chi era Paola? Nata nel 1813 a Brescia, città che già allora si distingueva per la presenza di un cattolicesimo attivo e fattivo, deve la sua formazione all’ambiente domestico, e poi alla frequenza di un quinquennio di studi presso il collegio della Visitazione, gestito da religiose. Tornata in famiglia, si dedica all’amministrazione della casa, in seguito collabora alla direzione della filanda paterna di Acquafredda e si impegna in un’azione educativo-assistenziale a Capriano del Colle, dove la famiglia Di Rosa aveva consistenti proprietà fondiarie. Emergono in queste occasioni le innate doti organizzative che Paola – detta anche Paolina – affina alla luce delle direttive paterne, ma soprattutto emerge la sua attenzione ai poveri, alle ragazze di paese, alle lavoratrici della filanda di cui la giovane percepisce, oltre ai bisogni materiali, la povertà spirituale.
Ottenuto l’assenso paterno, Paola inizia subito l’opera caritativa e assistenziale nel reparto dei colerosi che versano in condizioni di abbandono presso l’ospedale cittadino. Cura il bene spirituale delle ammalate, e nel contempo non disdegna di prestare loro i servizi più umili. Ella ha una visione unitaria della persona umana, per cui la carità deve raggiungere l’uomo interiore per salvarlo mentre contemporaneamente si dedica all’uomo esteriore per risanarlo.
Come non ricordare a questo punto l’intuizione e il carisma di san Camillo de Lellis, fondatore – tre secoli prima – dei Ministri degli infermi? Anche la Di Rosa non procede da sola: ben presto le si affianca un gruppetto di volontarie destinato a crescere, tanto che nasce l’idea di creare una congregazione con la quale sostituire le donne che in ospedale lavoravano stipendiate, giudicate per niente diligenti.
Il progetto non tarda davvero a realizzarsi: nel 1840 nasce la Pia Unione delle Ancelle, nome quanto mai significativo ad indicare lo spirito di servizio che le anima.
Parallelamente all’esplosione numerica delle sorelle, trascinate dal carisma della fondatrice, che da religiosa ha preso il nome di suor Maria Crocifissa, si assiste all’ampliamento del loro campo d’azione, in settori fino ad allora totalmente trascurati. Si va dall’assistenza ai sordomuti e agli alienati mentali, all’organizzazione di asili per l’infanzia abbandonata (piaga in quei tempi molto diffusa), a case e strutture destinate ad ospitare le “pericolanti”, donne ai margini della società, spesso prostitute, all’aiuto ai vecchi ecc. Geograficamente, la Pia Unione si estende dapprima in Lombardia, poi nelle regioni balcaniche affacciate sull’Adriatico, soggette come il Lombardo-Veneto all’Impero Asburgico.
Nel succedersi degli eventi che scandiscono gli anni avvenire (i moti risorgimentali, l’unificazione italiana, il fascismo) la risposta delle Ancelle ai bisogni vecchi e nuovi è sempre presente. Nel Novecento si aprono nuove frontiere: dalla presenza in America Latina all’accoglienza dei migranti in Europa, in sinergia con altre realtà e organizzazioni di volontariato.
La vicenda di suor Crocifissa, morta nel 1855 e proclamata santa nel 1954, è l’ennesima riprova del ruolo avuto nella storia della Chiesa dalle figure femminili: non donne eteree e angelicate come una certa oleografia le ha presentate, ma presenze attive, coraggiose, dotate di iniziativa e di intelligenza della realtà.
Per di più, in un momento storico come l’attuale in cui l’Occidente – in particolare l’uomo bianco – viene considerato responsabile dei più efferati crimini contro l’umanità (colonialismo, schiavismo, sfruttamento dei poveri e razziatore di risorse), forse è bene ricordare anche i numerosi esempi di segno contrario, esempi di gratuità, di fratellanza, di bene.
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