Dopo quella con Carlo Calenda, il Pd ha raggiunto anche l’intesa con i Verdi di Angelo Bonelli e la Sinistra italiana di Nicola Fratoianni. Enrico Letta ha dovuto impiegare tutta la sua diplomazia per tentare di spiegare quello che era accaduto. Intanto, si tratta di due intese “separate ma compatibili”. Nel merito, quello con Calenda è un “patto elettorale” basato sul programma della cosiddetta Agenda Draghi, mentre quello con Bonelli e Fratoianni è un “accordo elettorale” fatto per evitare che il centrodestra abbia troppi seggi nel prossimo Parlamento: “Oggi (ieri per chi legge, ndr) sigliamo questo accordo elettorale”, ha spiegato Letta, “collegato allo spirito della legge elettorale” perché “la solitudine delle nostre forze politiche porterebbe a una maggioranza a trazione delle destre”. Quanto ai numeri, dopo avere assegnato il 30% dei seggi uninominali ad Azione, il Pd cederà il 20% dei restanti (cioè il 14% del totale) a Verdi e Sinistra italiana. Il partito di Letta si terrà dunque il 56% dei collegi complessivi.
La cosa più sorprendente, tuttavia, è che Letta abbia candidamente ammesso che “non è un accordo di governo”. Cioè è pura tattica elettorale per sbarrare il passo agli avversari. “Le cose che ci hanno diviso nei mesi scorsi restano tali”, ha ribadito il segretario Pd. Del resto, Calenda era stato chiaro: niente accordi di governo con altre forze politiche. Ora bisognerà farlo capire agli elettori di sinistra: chi voterà Verdi e Si per le loro idee e i loro programmi porterà acqua a un’alleanza che, se andasse al governo, farà tutto l’opposto. Resta comunque il “no” a ulteriori aperture a Renzi e M5s “per scelta di coerenza”, mentre Letta in serata ha trovato l’accordo anche con Di Maio e Tabacci.
Contorsionismi verbali a parte, c’è ambiguità sulla posizione di Calenda. Accogliendo i transfughi di Forza Italia e facendosi alfiere dell’Agenda Draghi, il leader di Azione si era posto come riferimento dei moderati. Se avesse stretto un patto con Renzi, avrebbe rafforzato questa immagine di vero terzo polo centrista anche se non avrebbe toccato palla nei collegi uninominali. Invece prima ha barattato i rinforzi azzurri per una bella fetta di candidature e poi non ha battuto ciglio quando il Pd ha imbarcato quelli che per l’ex ministro sono il peggio del peggio: la deriva ambientalista e veterocomunista contraria alla Nato, all’Agenda Draghi, al nucleare.
Calenda ha fatto oggettivamente un favore a Letta, che grazie ad Azione e +Europa poteva dire di essersi coperto sul fronte centrista con una patina di moderatismo. Ma accettando l’intesa con il “partito del No”, il leader di Azione ha rinunciato a rappresentare coloro ai quali originariamente aveva promesso di dare voce. Anche se il “campo Letta” dovesse superare il centrodestra, non potrà governare senza i voti di Bonelli e Fratoianni, così l’equivoco della campagna elettorale non verrà sciolto nel nuovo Parlamento. E Calenda dovrà scendere a patti con i nuovi compagni di viaggio.
C’è poi un ultimo aspetto che appanna la strategia dell’ex ministro, smentito dal suo stesso nume tutelare. Giovedì sera in conferenza stampa Mario Draghi ha negato che vi sia un’Agenda Draghi. “È difficile dire che esista un’agenda”, ha detto il premier, “essa è fatta sostanzialmente di risposte pronte ai problemi che si presentano”. Non è proprio quel programma di governo agitato da Calenda come lo spartiacque tra i buoni della sinistra e i cattivi della destra. In realtà, l’Agenda esiste, eccome, ed è Draghi stesso. La personificazione dei vincolo esterno europeo sull’Italia.
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