Mi occupo di scuola e di formazione in tutte le molteplici declinazioni che questo tema può assumere fin da quando i velociraptor passeggiavano in viale Trastevere, eppure riesco ancora a stupirmi del fatto che ci sono alcune dichiarazioni, sempre le stesse, che indicano i principali problemi della scuola e promettono una rapida soluzione: sui problemi c’è un accordo totale, seguito da un immobilismo altrettanto totale. Nel riordinare le idee pensando alle elezioni (idee ed elezioni sono finora da considerare come un ossimoro), mi sono venuti in mente alcuni punti che i partiti potrebbero prendere in considerazione per presentare non una trionfalistica ipotesi palingenetica, ma un onesto e realistico piano di lavoro. Il mio discorso si articolerà in due premesse, cinque punti (per il momento) e – forse – una conclusione. Si accettano ulteriori suggerimenti.
Prima premessa
Parafrasando il Moretti di “io sono un autarchico” (no, il dibattito no!), si può incominciare dicendo “no, la riforma di sistema no!”. Ne abbiamo avute un certo numero, note con il nome del ministro proponente (la Moratti, la Gelmini, ma anche “la” Berlinguer…) fino alla “Buona scuola”, che ha avuto il merito indiscutibile di mettere la scuola al centro dell’azione politica, ma ha poi fatto una fine non all’altezza delle premesse. Io partirei, piuttosto che da un disegno onnicomprensivo, da un riordino della congerie di norme sulla scuola, in cui data una legge qualsiasi è praticamente sempre possibile trovare la legge uguale e contraria, per liberare la decretazione dalle pagine e pagine di “visto…” che precedono qualsiasi provvedimento, rendendolo incomprensibile ai più. Fra i nove decreti previsti dalla legge 107, la Buona scuola di cui sopra, c’era anche la delega al Governo per “la redazione di un testo unico delle disposizioni in materia di istruzione”, con varie specificazioni finalizzate alla semplificazione. Gli altri otto sono stati emanati…
Seconda premessa
È necessario abbandonare l’idea che, una volta emanata una legge, il più sia fatto e anzi si possa considerare finito il lavoro. Non è così: le norme che prevedono una trasformazione della scuola, o di una qualsiasi parte del sistema formativo, devono rispondere ad una logica precisa del tipo “identificazione del problema; progetto; sperimentazione; valutazione; (ri)progettazione”. Le innovazioni, per essere migliorative e non dei semplici cambiamenti, devono essere rigorosamente progettate prima e controllate poi, con una rigorosa analisi dei vincoli esistenti e delle risorse disponibili. Si deve tenere presente che ogni decisione che verrà presa inizia un processo, è dinamica e non statica, e spesso richiede a sua volta un apporto di formazione per chi deve attuarla.
Le parole chiave
Ripercorrendo le varie vicende della scuola italiana per identificare i settori chiave, le urgenze, disponiamo rispetto al passato delle indicazioni che vengono dalle organizzazioni internazionali, prima la strategia di Lisbona 2000, con gli obiettivi al 2010, poi Horizon 2020, poi l’obiettivo numero quattro dell’agenda 2030 dell’Onu per uno sviluppo sostenibile, “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Gli obiettivi al 2010 erano cinque: diminuzione degli abbandoni precoci (percentuale non superiore al 10%); aumento dei laureati in matematica, scienze e tecnologia (aumento almeno del 15% e diminuzione dello squilibrio fra sessi); aumento dei giovani che completano gli studi secondari superiori (almeno l’85% della popolazione ventiduenne); diminuzione della percentuale dei quindicenni con scarsa capacità di lettura (almeno del 20% rispetto al 2000); aumento della media europea di partecipazione ad iniziative di lifelong learning (almeno il 12% della popolazione adulta 25/64 anni, alzata al 15% per il 2020). Quest’ultimo obiettivo, la cui importanza è fondamentale in un’epoca di rapidi cambiamenti, è quello da cui l’Italia è più lontana, poco più del 7% nel 2020, anche a motivo della pandemia.
Per la dispersione, forse il più preoccupante indicatore negativo per le conseguenze di marginalità sociale che comporta, il bollettino Istat di agosto 2022 scrive che “la situazione generale colloca l’Italia lontano dagli standard europei nella prevenzione della dispersione scolastica, con un tasso di abbandono di circa il 13%, per salire intorno al 40% considerando il dato tra il primo e il secondo anno di università”. Se teniamo conto anche delle ripetenze, spesso preludio all’abbandono, la situazione peggiora ulteriormente.
Quanto alle capacità di lettura, recenti preoccupanti dati, aggravati dal periodo di didattica a distanza, mostrano che, a fronte di una discreta tenuta della scuola primaria e secondaria di primo grado, nella secondaria di secondo grado (le cui prove sono riprese quest’anno dopo due anni di sospensione a causa della pandemia), “considerando i risultati ottenuti nelle prove del 2019, sia in italiano che in matematica, si abbassa la percentuale degli studenti che raggiunge almeno il livello minimo di competenze (livello 3). Il calo è rispettivamente di 4 punti percentuali per italiano e di 8 punti percentuali per matematica.
A questi dati sconfortanti si aggiunge la dispersione implicita, cioè la percentuale di studenti che conseguono il diploma senza raggiungere i livelli di competenza che ci si dovrebbe aspettare dopo tredici anni di scuola: sono il 9,7%. Infine, i dati dell’indagine Piaac sulle competenze degli adulti, per le competenze linguistiche assegnano agli italiani un punteggio medio di 250, contro 273 della media Ocse, e per le competenze matematiche 247 contro 269. Complessivamente, la maggioranza del campione italiano si colloca al livello 2, nella scala che va dal livello 1 al livello 5, quindi al di sotto del livello 3, che è considerato il livello soglia per vivere e lavorare efficacemente.
Infine, tutti i dati confermano che i valori medi sono poco significativi, perché siamo in presenza di un’Italia a due velocità, in cui “aspetto comune nei vari gradi scolastici è il permanere di forti evidenze di disuguaglianza educativa nelle regioni del Mezzogiorno. I divari territoriali, infatti, continuano ad ampliarsi e la pandemia ha reso ancora più evidente il problema della dispersione scolastica – sia esplicita che implicita”.
Se questo è lo stato di salute della scuola italiana (ma si potrebbero aggiungere molti altri indicatori, dalla quota di supplenti all’avvicendamento dei docenti, dall’insufficienza di dotazioni informatiche ai continui mutamenti nelle prove di fine ciclo o nella formazione e reclutamento dei docenti), e se l’affermazione di Nelson Mandela che “l’educazione è l’arma più efficace per cambiare il mondo” (che prendo in prestito da un recente e interessante libro sul finanziamento dell’università, Il reddito di istruzione) è vera, mi pare che per un reale e duraturo miglioramento della nostra società si debba e si possa partire dall’educazione. Le mie cinque parole chiave – non necessariamente le sole, e non necessariamente in ordine di priorità – sono allora insegnanti, rapporto con il lavoro, autonomia, equità e qualità. Cercherò di illustrare che cosa intendo per ciascuno di questi che considero nodi cruciali per l’efficacia del sistema, cercando di equilibrare il realismo con un pizzico di utopia.
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