Achille Lauro e l’ovvietà viaggeranno per sempre su binari paralleli, senza incrociarsi mai. Tanto nel suo percorso artistico-musicale, quanto nella sua vita personale. Ché nel 32enne nativo di Verona si aggrovigliano con straordinaria lucidità concetti e assiomi tipici di un motore di ricerca, dando vita a un melting pot cognitivo che cancella la banalità da qualsiasi sua azione. Può unire o dividere, ma non per questo Achille Lauro rinuncia a essere se stesso: “Mi sono conquistato i fan rischiando, come quando a Sanremo mi sono vestito da San Francesco – ha sottolineato il cantante sulle colonne di ‘Tu Style’ –. È stata una scommessa, potevo uscirne distrutto. E ho fallito tantissime volte: ho fatto concerti con dieci persone e ho capito che è più difficile che averne davanti 25mila, perché lì devi suonare e intrattenerli uno per uno”.
Achille Lauro pone l’umiltà alla base del suo iter professionale: “Essa è alla base dei rapporti umani, soprattutto è alla base del mio lavoro. Molta gente pensa che io abbia avuto successo e che io sia soltanto un montato, invece mi considero un maniaco del dettaglio e un grande lavoratore, perché ogni volta devo riconfermarmi con me e con il pubblico, devo riuscire a superarmi, devo portare la mia musica a un livello successivo, di qualità, competitiva anche all’estero. Sono super critico con me stesso”.
ACHILLE LAURO E IL SOGNO DELLA PATERNITÀ: “ECCO COSA DOVREBBE FARE UN BRAVO GENITORE…”
Sempre attraverso “Tu Style”, Achille Lauro ha accarezzato l’idea di diventare padre (“Mi piacerebbe molto”), aggiungendo poi che i ragazzi devono essere spronati a sbagliare per crescere. In particolare, un bravo genitore ha “il dovere di prendersi cura dei propri figli, ma non di decidere chi diventeranno. È molto difficile, ma fare il genitore vuol dire amare un ragazzo e accompagnarlo lungo la strada che lui si sceglie: chi amare, chi diventare e che cosa fare nella vita, perché il lavoro ci definisce, fa di noi quello che siamo”.
Il problema della generazione attuale, secondo Achille Lauro, è che “non siamo stati educati a capire cosa amiamo e se potessimo fare semplicemente quello che ci piace non saremmo incasellati in nessuno spazio. Escludendo la necessità, come i nostri coetanei che hanno avuto dei figli da giovanissimi e devono lavorare per mantenerli, a chi può direi di seguire la sua vocazione, anche a discapito del guadagno. Questo dovrebbe essere l’insegnamento delle scuole, dei genitori: fare quello che si ama. Fare, sbagliare. E rifare. Per riuscire in quello che vuoi devi prendere tante porte in faccia. Il successo non è solo talento, ma tempo e dedizione”.