È bastato un dato sull’inflazione di luglio inferiore alle attese e inferiore al massimo di giugno perché il principale indice azionario americano chiudesse con un ottimo rialzo. L’inflazione a luglio è stata pari all’8,5% contro il 9,1% di giugno, tanto è bastato perché il mercato scommettesse su una virata della Federal Reserve più veloce; il Presidente Biden ha potuto dire che l’inflazione a luglio è stata dello 0% riferendosi all’incremento sul mese precedente e non a quello annuale che invece continua a essere vicino ai massimi degli ultimi 40 anni. Questa singolare presentazione del dato dimostra ancora una volta quanto il tema sia politicamente sensibile a tre mesi dalle elezioni di mid-term.
La riduzione rispetto a luglio è quasi interamente attribuibile al calo del prezzo del petrolio dopo un rilascio di riserve strategiche che non si vedeva da qualche decennio. Continuano invece a salire, mese su mese, con ulteriori rincari rispetto a giugno sia il prezzo degli alimentari che quello degli affitti e in generale dei costi dell’abitazione. Significa che l’impatto sulle famiglie e sui consumatori non si sta attenuando e che i rincari si concentrano su voci di spesa che producono effetti nel medio lungo termine. I contratti di affitto che vengono rinegoziati ora a prezzi sensibilmente più alti peseranno sulle famiglie per molti mesi; lo stesso si può dire per i prezzi delle case. Il costo dell’abitazione, oltretutto, non viene catturato perfettamente dai dati ufficiali che con ogni probabilità lo sottostimano.
Il risultato è che i salari reali continuano a scendere e il potere di acquisto delle famiglie si erode. Ci si può concentrare sull’incremento mensile invece che annuale, evidenziare il calo rispetto al mese di giugno oppure compiacersi che il numero uscito sia stato inferiore alle attese, ma il risultato per le tasche delle famiglie non cambia.
L’incremento dei prezzi si accumula. Il rialzo di dicembre produce ancora oggi i suoi effetti esattamente come i rincari di luglio, in assenza di incrementi salariali, produrranno i loro effetti anche tra un anno. L’unico modo per tornare al punto di partenza sarebbe quello di avere numeri negativi. Il calo del petrolio e del gas che ha contribuito alla discesa del dato di luglio è un aiuto su cui non si può contare; le tensioni geopolitiche in atto e i disincentivi a non investire delle principali società energetiche sono una piattaforma fragile su cui costruire un calo dei prezzi energetici duraturo e prevedibile.
Ciò che emerge sempre più chiaramente è che l’unico cambiamento che potrebbe impedire un ulteriore incremento dei prezzi è una recessione. L’incremento dei prezzi è spinto da forze che sono strutturali e che hanno effetti strutturali sul potere d’acquisto delle famiglie. La domanda vera è quale sia il conto da pagare per poter ottenere una riduzione dei prezzi. In questo momento ci sono tutti i presupposti perché i prezzi continuino a salire a ritmi sostenuti, anche se inferiori ai massimi, o addirittura facciano segnare nuovi picchi. Il dato di ieri conferma questo scenario.
La propaganda può molto, anzi moltissimo, ma a un certo punto si scontra con il muro di un impoverimento reale che politicamente si può sostenere solo puntando il dito contro un nemico interno o esterno; non importa se vero o finto. L’inflazione non è la principale questione economica, ma la principale questione politica. Per vincere la sfida non basta farla scendere, ma occorre che cali senza causare una depressione. È una sfida che chiede approcci non convenzionali e il coraggio di scontrarsi con ricette e politiche che vengono presentate come necessarie da anni.
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