Caro prossimo ministro dell’Istruzione,
so che è un po’ presto per la stesura di una letterina dei desideri per Natale, ma con i tempi che corrono e le annesse lungaggini burocratiche, meglio essere previdenti e muoversi in anticipo.
Non so quale sarà il suo partito di appartenenza, la sua ideologia (se mai ne avesse una) e, men che meno, il suo nome. Francamente mi interessa poco che lei sia un alto papavero di Confindustria del recente passato, uno che lanciava sanpietrini e fumogeni in qualche manifestazione di dubbia natura e utilità, o persino uno che da ragazzino giocava, certamente ignorando che in Italia è leggermente reato, a salutare la gente col braccio destro teso all’insù.
Quello che mi interessa e molto è una semplice, banale, sciocca richiesta. Non tocchi nulla. Lasci le cose come le ha lasciate il suo predecessore.
Questa richiesta potrà sorprenderla, se mi conoscesse, perché in quel caso saprebbe che non ho mai nutrito alcuna simpatia verso l’operato del ministro Bianchi.
Il punto è però questo, signor ministro che verrà: che, per quanto ci siano un’infinità di questioni, nella scuola, che non funzionano, gli insegnanti sono stanchi.
Sono stanchi del giochetto che da un quarto di secolo almeno hanno portato avanti tutti coloro che hanno poggiato il fondoschiena su quel periglioso seggio, su cui ora anche le sue natiche alloggiano: quello di cambiare le carte in tavola perché sì, perché così facciamo vedere che il nostro governo fa qualche riforma.
Del resto, toccare la scuola è la cosa più comoda, visto che le riforme, al suo interno, siano esse sul reclutamento o sull’esame di maturità, solo per citare i capitoli più seviziati, sono pressoché sempre a costo (monetario, perché su quello umano, potremmo stare ore a discuterne) zero. È un po’ come si comportano certi animali della giungla, suppongo: per rimarcare il possesso di questo o quel chilometro quadro di savana si va a fare la pipì sull’albero che muto e stoico aveva sopportato appena il mattino precedente la minzione della creatura rivale.
Quindi, la prego: visto che da anni desideriamo che le cose cambino e, tutte le volte, cambiano in peggio, facendo del mondo della scuola un patchwork di pezze multicolori e di scarsa qualità in cui della stoffa originale si è persa traccia, almeno lei, uomo di buon cuore, lasci stare.
Non ci regali altre spiacevoli sorprese sotto un abete finto, di plastica, con gli addobbi tristemente spelacchiati, ma che almeno abbiamo imparato faticosamente a riconoscere come nostro.
Ci dica a settembre che l’esame dell’anno prossimo è come quello di quest’anno, non ad aprile inoltrato che si è inventato una grande idea per reintrodurre la tesina, ma sterilizzata in modo tale da farla diventare l’ennesima farsa, anziché uno dei rari sfoggi di creatività che possiamo domandare ai nostri ragazzi.
Dica ai miei colleghi precari che i concorsi saranno orribilmente nozionistici e basati su delle domande da quiz a premi prima e di conoscenza di pelose cavillosità burocratiche dopo, ma ci dica che ci sono, non si inventi una grande riforma che introduca anche il salto sul posto e la corsa coi sacchi sì, ma tra tre anni.
Dica alle università di continuare pure a fare i test di ammissione tra febbraio e marzo, giusto per ricordare ai nostri studenti di quinta che studiare per l’esame di maturità (o studiare in generale, una volta superata la selezione) è perfettamente inutile, ma non si inventi qualche fantastica trovata per eliminare in toto lo studio di qualche materia che “tanto è inadatta per trovare spazio nel mondo del lavoro”.
Dica che il Pcto s’ha da fare, anche se in certe zone i ragazzi li si manda a fare i fioristi o i baristi per due settimane perché quello è ciò che passa il convento, per quanto non ci azzecchi nulla con l’indirizzo di studio che stanno completando; ma non dica “le ore di Pcto possono essere fatte anche in classe”, di modo che noi insegnanti oltre alla materia che insegniamo dobbiamo inventarci un’altra materia, tutta diversa, da farsi nelle stesse ore in cui completiamo il nostro “percorso”, che chiamarlo “programma” non si può più.
Dica pure che la scuola deve essere più inclusiva, ma non si inventi un altro, ennesimo nuovo modo di compilare il piano didattico personalizzato, che poi si sa mai che vada contro la privacy e, ora che abbiamo imparato a utilizzare il format, il Tar del Lazio lo annulla.
Cosa vuole, noi insegnanti siamo diventati un po’ come il biblico Esaù: lui scambiò la primogenitura del popolo di Israele per un misero piatto di lenticchie, noi scambieremmo volentieri un altro anno di roboanti promesse di svecchiamento del sistema per un misero annetto senza la solita ginnastica mentale e rincorsa a nuovi criptici decreti, da interpretare regolarmente con le nostre – non infinite – doti di improvvisazione e inventiva.
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