Joe Biden, prima dell’invasione russa, era stato molto netto nel dichiarare che gli Stati Uniti non sarebbero comunque intervenuti direttamente in difesa dell’Ucraina. Insomma, che gli americani non erano disposti a “morire per Kiev”. Ora, però, si ripropone la domanda, ovvero se sono disposti a “morire per Taipei”. Una domanda posta con maggiore nettezza dalla recente visita a Taiwan della speaker della Camera, Nancy Pelosi.
Su Taiwan Biden si era espresso in termini più “interventisti” rispetto all’Ucraina, ma tutto sommato rimanendo all’interno della situazione di stallo che ha caratterizzato la questione fino a non molto tempo fa. La visita della Pelosi, come dimostrano le violente reazioni di Pechino, sembra aver portato il confronto a una fase che ricorda la “brinkmanship” di Foster Dulles verso Krusciov sui missili a Cuba nel 1962. Ora “l’orlo del burrone” è dato dall’attuazione da parte di Pechino del principio “un Paese, due sistemi”, cioè, secondo la Repubblica Popolare, l’annessione di Taiwan con la promessa di mantenerne il diverso sistema di governo.
Lo stesso principio doveva valere anche per Hong Kong dopo la ritirata degli inglesi nel 1997, ma da allora il Governo cinese ha sempre più violato l’autonomia di Hong Kong, con l’obiettivo di instaurare anche lì interamente il sistema di governo comunista. Non c’è da stupirsi, quindi, che a Taiwan la maggioranza sia contraria a un’annessione alla Repubblica Popolare, che porterebbe prima o poi all’assimilazione dell’isola al resto della Cina. Una posizione che è stata chiaramente espressa dalla presidente Tsai Ing-wen nel 2020 al momento della sua rielezione.
Il punto è che il principio “un Paese, due sistemi” è stato a suo tempo accettato dagli Stati Uniti, dando così una patina di legittimità alle pretese di Pechino, malgrado non fosse credibile che un regime dittatoriale come quello comunista cinese avrebbe mai potuto accettare al suo interno un sistema democratico. E con ragione dal suo punto di vista, perché avrebbe costituito una minaccia pericolosa per il regime stesso, come sta dimostrando la vicenda di Hong Kong. Le ragioni della decisione di Washington possono forse trovarsi all’inizio in un tentativo di favorire Pechino che si stava distanziando da Mosca; poi, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nella convinzione che l’avvento del “Secolo americano” avrebbe inserito pacificamente la questione Cina-Taiwan senza particolari problemi nel nuovo ordine mondiale governato dagli Usa. I problemi si sono invece acuiti con il progressivo declino del suddetto “Secolo” e il deciso rafforzamento della Cina comunista, sempre più decisa a giocare un ruolo determinante nella politica internazionale.
Ora la situazione sembra essere finita in un vicolo cieco e nessuno dei contendenti può tornare indietro senza perdere la faccia. Per Pechino continuare a sbandierare il citato principio, ma accettando l’indipendenza di fatto di Taiwan, sarebbe una notevole perdita di prestigio con conseguenze gravissime all’interno del regime. Un esito che potrebbe piacere a molti, ma che provocherebbe una crisi con serie ripercussioni anche al di fuori della Cina. L’annessione con la forza di Taiwan, oltre che essere difficile e molto costosa sotto tutti i profili, farebbe precipitare la situazione nel burrone, perché difficilmente gli Stati Uniti e i loro alleati, europei e asiatici, potrebbero rimanere indifferenti all’aggressione. Oltre tutto, a differenza del caso ucraino nel quale i costi ricadono principalmente sull’Europa, qui gli Usa sarebbero in prima linea.
Washington potrebbe finalmente riconoscere ufficialmente Taipei, ponendo così fine all’attuale farsa dove gli Stati Uniti accettano il principio dell’unica Cina sotto il governo di Pechino, da loro riconosciuto, però al contempo sostengono l’indipendenza di Taipei, che non riconoscono. Finora solo 14 Stati hanno allacciato relazioni diplomatiche con Taiwan, tra i quali il più importante a livello internazionale è la Città del Vaticano. In effetti, il riconoscimento di Taipei da parte di Washington, dell’Ue, della Nato e di altri Paesi asiatici come il Giappone, renderebbe quantomeno più difficile un’azione militare di Pechino.
Un’operazione di questo tipo dovrebbe essere accompagnata da concessioni a Pechino che facciano apparire il tutto non come un suo cedimento, bensì come un’azione concordata in nome di una convivenza più pacifica e collaborativa nell’intera regione. Non sono un esperto di diritto internazionale e magari sto per dire una sciocchezza, ma forse si potrebbe ricorrere alla formula della confederazione di Stati. Dato il carattere dittatoriale del regime di Pechino, la formula dello Stato federale non funzionerebbe, ma la confederazione consente di mantenere ai singoli Stati la propria indipendenza. Un modello applicato a suo tempo dalla Svizzera, che lo ha mantenuto nel nome anche dopo essersi trasformata in Stato federale, e noto anche nel campo comunista, con la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) creata in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in verità con scarso successo.
Di fronte alla possibilità, sempre meno teorica, di una guerra globale sarebbe opportuno che chi detiene il potere reale trovi soluzioni, necessariamente di compromesso, per evitare la catastrofe. Riconoscendo anche, se del caso, gli errori commessi e cercando di porvi riparo: questa dovrebbe essere una caratteristica delle vere democrazie a fronte della protervia delle dittature.
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