Giovani e mercato del lavoro. Per molte ragioni possiamo dire che riassumono i problemi che rendono anomala la situazione del nostro Paese. Sono sicuramente i giovani gli incolpevoli protagonisti del problema demografico che sta incominciando a farsi sentire per la carenza di offerta di lavoro. Non è certamente colpa loro se sono meno numerosi della generazione del baby boom che sta andando in pensione, ma il problema si farà sentire, in assenza di politiche migratorie intelligenti, sia sul mercato del lavoro, sia per gli impatti sul sistema di welfare.
È ancora fra i giovani che si registra il maggiore mismatching fra formazione richiesta dal sistema economico e competenze presenti fra quanti si affacciano sul mercato del lavoro. Urgono programmi a breve di formazione per le competenze richieste, ma poi servono riforme che incidano sul sistema di orientamento e su istruzione e formazione professionale.
Altra anomala situazione è quella del peso che i Neet hanno in Italia rispetto ad analoghi paesi europei. Sono tanti giovani che si ritirano dai percorsi formativi e troppi quelli che non figurano attivi sul mercato del lavoro. Il basso tasso di occupazione femminile, altra caratteristica negativa della partecipazione attiva al mercato del lavoro italiano, accentua ulteriormente questi dati creando un’ulteriore carenza di competenze nel mercato.
I tre temi posti dalla situazione lavorativa delle nuove generazioni sono normalmente affrontati con interventi prettamente congiunturali che non scalfiscono minimamente lo zoccolo dei problemi. Abbiamo avuto così molteplici normative temporanee di sgravio dei costi per le assunzioni di giovani che hanno temporaneamente dato un po’ di impulso alle assunzioni, ma spesso creando effetti di spiazzamento rispetto a normative già in essere. Si veda da questo punto di vista il risultato delle due edizioni di Garanzia Giovani: una prima volta con qualche effetto positivo tramite tirocini poi trasformati in contratti di lavoro e una seconda con effetti scarsi perché in controtendenza con altre agevolazioni in corso.
Tutta questa confusione è resa possibile anche dalla mancata chiarezza sui contratti proposti come agevolazione per l’inserimento al lavoro dei giovani. Continuano a rimanere in essere stages e tirocini che non sono contratti di lavoro e che si prestano ad aggirare diritti e tutele dei lavoratori. Non si è mai avuto il coraggio di individuare il contratto di inserimento lavorativo che sia a tutti gli effetti l’inizio della vita lavorativa della persona (riconosca che si incomincia a risparmiare a fini pensionistici) e permetta una flessibilità e modularità nei costi e negli obblighi in funzione dei livelli di preparazione dei nuovi assunti.
Più volte si è tentato di individuare nel contratto di apprendistato lo strumento intorno a cui lavorare per cercare di dare uniformità ai percorsi di inserimento lavorativo, ma sempre con scarsa determinazione e con continue variazioni al cambio di Governo.
La disciplina attuale dell’ apprendistato, con l’ampliamento di potenzialità offerte dal sistema duale della formazione professionale, sarebbe una buona base che permetterebbe di togliere di mezzo tutte le altre forme paracontrattuali e di modulare fra i diversi percorsi di apprendistato i tanti percorsi di flessibilità che potrebbero riguardare non la flessibilità su diritti e tutele ma fra costi, peso della formazione sul totale delle ore di lavoro e passerelle di passaggio scuola-lavoro fino ai livelli più alti di formazione terziaria.
L’Inapp, Istituto nazionale di analisi delle politiche pubbliche che è parte del sistema statistico nazionale, ha recentemente pubblicato il suo XX rapporto di monitoraggio dedicato all’andamento dell’apprendistato durante la crisi pandemica. L’andamento dei dati rispecchia quelli generali del mercato del lavoro. Il 2020 registra un calo dei contratti del 5,4% che segue però un 2019 che aveva registrato un +13%. Il calo più contenuto rispetto alla crescita della disoccupazione giovanile in generale e che si concentra nei settori produttivi più colpiti dal lockdown deriva appunto dall’essere un vero e proprio contratto di lavoro. Per questa ragione i giovani in apprendistato hanno potuto usufruire della tutela offerta dal blocco dei licenziamenti mentre i loro amici in stage o tirocinio sono stati i primi a non vedere rinnovato l’incarico.
Per capire i numeri stiamo però parlando di 531.035 giovani in tutta Italia. Di questi il 20% nella sola Lombardia. Il nord più la Toscana rappresentano quasi il 70% del totale. Rappresentano quasi il 18% dei giovani fra 15 e 29 anni.
Nonostante alcuni tentativi per estendere l’uso dell’ apprendistato anche per la fase di istruzione e formazione professionale (apprendistato di primo livello), il mismatching persistente fra volontà nazionale e decisioni delle regioni (cui spetta regolare l’apprendistato) ha prodotto che per il 97,7% dei contratti si tratta di apprendistato professionalizzante. Così il contratto riguarda soprattutto la fascia di età sopra i 18 anni perché si rivolge a chi un primo titolo scolastico lo ha già acquisito.
Va rilevato che anche nel 2020 91.550 apprendisti sono passati a contratti a tempo indeterminato. Il perché il contratto di apprendistato dovrebbe diventare la base per un contratto di ingresso generalizzato deriva a mio parere da analisi presentate dal rapporto per la prima volta. Analizzando gli apprendisti che hanno iniziato il percorso nel 2015 abbiamo che 5 anni dopo il 30% ha seguito il percorso triennale e trasformato il contratto in lavoro stabile. La durata media dei percorsi varia molto fra settori. Se nell’alberghiero e ristorazione è di 6 mesi è invece superiore all’anno e mezzo nei settori industriali.
Ancora più interessanti le analisi per gli apprendisti che hanno iniziato nel 2005 e nel 2010. Dopo 15 e 10 anni troviamo che il 77,4% è ancora al lavoro. Di quanti hanno iniziato nel 2005 il 64,3% è composto da lavoratori dipendenti e il 12% da lavoratori autonomi. Fra chi ha iniziato 5 anni dopo il 66,7% è fatto da dipendenti e cala di conseguenza il numero di autonomi. In entrambi i gruppi risulta fuori da ogni carico lavorativo il 20% di quanti avevano iniziato a lavorare. Fra questi una percentuale significativa di extracomunitari il che fa pensare che vi sia una componente importante di lavoro nero che si somma al ritiro nell’inattività di una quota di donne nella fase della maternità.
Questi dati, che si riferiscono esclusivamente all’apprendistato senza prendere in considerazione la potenzialità del contratto di apprendistato con i percorsi di formazione duale, ci indica però che esiste un contratto che può diventare una base seria per individuare i percorsi di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro con più diritti e tutele. Serve il coraggio di sfoltire i finti percorsi privilegiati oggi esistenti e non inventarsi strumenti economici di sostegno ai giovani se prima non si fissano i principi di un lavoro equo e con contratti giusti per tutti.
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