Come si diceva nella prima parte di questa riflessione che è già stata pubblicata, i sondaggi, ma anche la percezione diffusa dell’opinione pubblica danno la vittoria della coalizione guidata dalla Meloni per certa. Dubbia, semmai, rimane la misura di questa vittoria annunciata: le cose – si dice – non saranno le stesse se la Meloni supererà soltanto la soglia del 50% o se riuscirà a conseguire più di due terzi della rappresentanza parlamentare.
Due sono, dunque, gli interrogativi che questa situazione oggi solleva: fino a che punto questa vittoria sia scontata e quali scenari si aprono nel caso essa avvenga nell’una misura o nell’altra.
L’ineluttabilità di questa vittoria di un centro-destra che è più destra che centro dipenderà – sembra strano a dirsi – dalla tenuta del M5s.
La crescita inaspettata di FdI e la stessa resistenza della Lega bel al di sopra dei numeri di prima del 2018 dipendono, infatti, da quel 25-30% dell’elettorato che era confluito nel M5s e che aveva consentito l’exploit leghista delle ultime elezioni. Questo elettorato, in gran parte, non è ritornato, né ritornerà, nel Pd e nel centro più o meno berlusconiano. La protesta ed il risentimento verso questi partiti, che per circa un trentennio si sono succeduti nella guida di questo Paese, sono tali, e tanto giustificati, da non permettere che si immaginino significativi ritorni. E d’altronde, la gestione, rispettivamente, di Letta e dei rissosi eredi del Cavaliere rende qualsiasi diversa previsione priva di ogni serietà. Letta fa conto sulla polarizzazione e pensa di proteggersi con l’ombra di Draghi, ma chi se ne è andato dal Pd ha più ragioni per non tornarvi di quante ne aveva per andarsene.
Per questo una vittoria di questa destra sembra possa essere messa in forse solo da una tenuta del M5s o – meglio – da un suo qualche recupero: vorrà dire che quella parte del suo elettorato che veniva dalla sinistra non si è sentita, alla fine, di migrare a destra o di ingrossare le fila dell’astensione.
Questo mostra quanto arrogante e miope sia stata la demolizione di questo partito sistematicamente orchestrata dal Pd e dai “cespugli” di Calenda e Renzi e, soprattutto, dall’establishment che sorregge l’uno e gli altri. Semplicemente, hanno segato il ramo su cui ancora poggiavano le chances del centro-sinistra di governare il Paese nelle tempeste prossime che molte cose lasciano presagire: il che è comprensibile per l’establishment che, alla fine, non rischia granché (almeno in quell’immediato al quale solitamente si arrestano i suoi ragionamenti), ma non lo è per il Pd che si gioca, così, tutta la sua tradizione politica, o quel che ne restava.
E mostra anche quanto, paradossalmente, dalle sorti di questo M5s dipenda, oggi, il futuro di questo Paese. Il che non lascia tranquilli, tutt’altro. Perché troppo si è fatto per impedire che questo partito, sebbene ormai sufficientemente svestito da quanto prima lo rendeva contiguo alla Lega, potesse definire una sua identità forte, uno spazio chiaro a tutti per tornare a raccogliere la dispersa moltitudine dei tralasciati sotto un’insegna progressiva.
Dunque, sembra verosimile che la profezia dei sondaggi si avveri e che la coalizione della Meloni conquisti l’agognata vittoria. L’interrogativo di questo momento concerne, perciò, quel che si può immaginare ne seguirà.
Gli scenari, che solitamente si prospettano ad opera del centro-sinistra e degli opinionisti di maggior peso, appaiono, per lo più, preoccupanti. Ma molto potrebbe far pensare che quest’allarme appartenga, in gran parte, alla propaganda che presiede al gioco elettorale.
Innanzitutto, e contrariamente a quel che spesso si sente, non sembra vi siano da temere, almeno nell’immediato, stravolgimenti nel posizionamento dell’Italia non solo nella Nato ma nella stessa Ue, e neanche scossoni sensibili del sistema economico nazionale rispetto all’economia globale: i vincoli europei e la “sorveglianza” dei mercati finanziari e delle loro istituzioni sono ormai tali che poco su questo piano potrà essere fatto che dissesti il Paese su entrambi questi contigui versanti.
Questo, però, non basta a tranquillizzare chi prova a scrutare l’orizzonte con uno sguardo un po’ meno superficiale: la relativa intrascendibilità del quadro internazionale e comunitario, infatti, fa immaginare che tutte le spinte della coalizione della Meloni e le “testimonianze” che necessariamente dovrà rendere a quanti l’hanno votata si rivolgeranno al versante interno. E che non saranno poche, né di poco conto.
Il centro-sinistra, insieme agli opinionisti vicini ai luoghi che contano, hanno preso ad insistere sulle “ascendenze” fasciste di FdI, e della stessa Meloni: la polemica sulla “fiamma tricolore” del loro simbolo (che evoca il vecchio Msi e il sepolcro di Mussolini) ne è l’ennesima conferma. In questo vi potrebbe essere magari qualcosa di vero, se solo si pensa che la contiguità di FdI con il gruppo di Visegrád, il comizio spagnolo della Meloni e gli ammiccamenti alle formazioni di estrema destra esibiti a Milano sono solo di un anno fa, o poco di più. Ma questo – occorre dirlo con chiarezza – non basta proprio a far dire fascisti la Meloni e il suo partito: verosimilmente, si tratta solo di espedienti di una propaganda che cerca di rinfocolare l’animo degli attivisti e di rastrellare anche il voto marginale della destra nostalgica.
Le cose che contano sono, invece, altre ed hanno tre nomi: l’irrigidimento “autoritario” delle strutture statali e pubbliche, l’ostilità verso le formazioni sociali intermedie (sindacati, ecc.) e le istanze che in esse prendono corpo e il ricorso alla paura del diverso come forma di controllo sociale. In queste cose (alcune delle quali – è il caso, però, di ricordarlo – non costituiscono un’esclusiva della destra dichiarata) si annida un’insidia che va oltre la sgradevole sensazione della continuità con un passato che, tuttavia, rimane ancora improbabile.
È facile prevedere che lo spirito, che di certo percorre tutte queste cose, si riverserà, in un modo o nell’altro, sulla “politica interna” di questa coalizione e ne orienterà non solo le parole ma anche i provvedimenti.
Da una vittoria, che attribuisca alla Meloni già la sola maggioranza semplice del Parlamento, ci si può quindi aspettare, quanto meno, una marcata accentuazione delle diseguaglianze sociali, significative regressioni nelle cosiddette strategie dei diritti e pratiche tendenzialmente discriminatorie verso tutto ciò che appare diverso.
Nessuno può seriamente sottovalutare una tal prospettiva: ne va delle condizioni materiali e spirituali di esistenza di milioni e milioni di cittadini, moltissimi dei quali già versano in gravissima sofferenza. Ma si può anche pensare che questo (quando rimanga entro i confini dei diritti costituzionali fondamentali) stia tutto dentro il gioco della democrazia rappresentativa: in fondo – si può dire – questo hanno voluto gli elettori, ai quali è dato di cambiare registro alla prossima tornata elettorale. Brutto? Bruttissimo per chi ha a cuore le sorti di milioni e milioni di “ultimi”. Ma questo è.
Così sarebbe, se non fosse che politiche siffatte possono innescare il deterioramento delle relazioni sociali e lo sviluppo di una diffusa conflittualità, che, in presenza di gravi congiunture e di uno “spirito” d’altri tempi, rischiano seriamente di andare oltre il segno.
Sulla gravità della congiuntura, che guerra, emergenza energetica, mutazioni climatiche, ristrutturazioni aziendali, crisi del mercato mondiale e speculazione internazionale sulle materie prime apriranno già dal prossimo autunno, non vi sono molte parole da spendere: è sotto gli occhi di tutti.
Solo che la Meloni non è Berlusconi e che la sua guida del centro-destra ne fa un’altra cosa, una cosa che pensa ed opera in uno “spirito” e secondo paradigmi affatto diversi. E questo può fare una grande differenza.
Le frantumazioni e le conflittualità che questa congiuntura minacciano di elargire, proveranno ad essere ricompattate secondo un dispositivo che è giù stato sperimentato da Salvini e che passa attraverso la “paura” e l’evocazione dei “valori tradizionali e identitari”. Il senso di questo dispositivo, però, è, da sempre, quello di aggregare un esasperato “consenso del popolo” tale da indurlo a “dimenticare” le condizioni in cui versa e chi ne porta le responsabilità. Ma la spinta esasperata di questo consenso popolare esasperato dovrà pure avere uno sfogo e rischierà di spingere il Paese verso una china regressiva, che può giungere a interessare gli assetti generali della società e la sua coesione: in queste condizioni si sa da dove si parte ma non si sa dove si arriva. Scontato? no. Ma possibile, sì. Anzi più che possibile se arrivasse la “tempesta perfetta”.
Non la destra in sé, dunque, ma la coniugazione del suo spirito con un’emergenza inusitata, di proporzioni inaudite è quello che solo può fare temere il peggio e giustificare l’allarme.
Analoghi ragionamenti valgono anche per il caso che la coalizione della Meloni conquistasse la maggioranza dei due terzi del Parlamento e si trovasse aperta la strada a riforme della Costituzione non sottoposte al vaglio del referendum costituzionale.
Su questo battono il centro-sinistra e la maggior parte degli opinionisti di peso ospiti delle trasmissioni televisive di questi giorni.
Buon senso e pacatezza farebbero dire che il procedimento di riforma è stato previsto dalla Costituzione proprio per consentirne l’emendamento, che il presidenzialismo è stato introdotto in Francia fin dai tempi di De Gaulle senza farla traghettare nel novero dei paesi autoritari e che molti di quelli che agitano questa paura si sono battuti per la riforma costituzionale di Renzi che su questo piano non era certo da meno.
D’altronde, non si può sostenere che la riforma costituzionale costituisca un diritto esclusivo del centro-sinistra.
Anche questo è, almeno in buona parte, vero. Se non si considerasse che i meccanismi costituzionali sono sempre molto delicati e complessi, mai riducibili a questioni di sola efficienza istituzionale e men che mai politicamente neutri.
Il presidenzialismo intacca fortemente i principi della democrazia rappresentativa e consente ad una minoranza politica di conquistare un potere che l’orientamento elettorale dei cittadini non gli darebbe: per questo esso è, obiettivamente, una grave iattura per la democrazia se non è accompagnato da adeguati, sicuri ed efficienti contrappesi strutturati e incardinati in altre istanze dello Stato (Parlamento, Governo, Corte costituzionale, ecc.).
Ed ancor peggio è da dire per l’autonomia regionale differenziata, che – come da molti è stato irrefutabilmente mostrato – spaccherebbe definitivamente in due un Paese che all’ormai secolare divaricazione tra Nord e Centro-Sud deve tutti i suoi limiti economici, ma non solo.
Ma il punto anche qui è quello di prima: che la congiuntura di questo tempo di gravissima crisi e le dinamiche politiche che la sua gestione ad opera di questa destra non si può escludere possano finire per porre questioni siffatte su di una china che non si sa dove possa portare. Con il di più che le leggi ordinarie si cambiano con una qualche facilità, mentre le riforme costituzionali sono difficilissime da smontare.
Uno scontro costituzionale, allora, potrebbe introdurre scenari che i mutamenti virtualmente epocali in corso e la fragilità economica e politica del nostro Paese rendono francamente incalcolabili. Mentre l’addebitare alle strutture politiche l’incapacità di fronteggiare le crisi e il focalizzare il malessere del popolo sul loro anche traumatico cambiamento costituiscono una strategia estrema che, in qualche misura, è da sempre praticata dai governi in gravi difficoltà, ma che appare un riflesso pressoché automatico e virtualmente illimitato quando il loro “spirito” si volge a destra, anzi ad una destra “muscolare” come quella che la guida della Meloni non esclude affatto di immaginare.
Dunque, anche in questo caso, non la destra in sé, ma la coniugazione del suo spirito con un’emergenza inusitata, di proporzioni inaudite è quello che può fare temere il peggio e giustificare l’allarme.
Questi scenari potrebbero sembrare eccessivi, catastrofici, e tutti – a cominciare da chi scrive – si augurano che non vengano in essere, almeno in questa misura. Ma se è vero quel che si dice e si legge sulla gravità di questa congiuntura, che più che una congiuntura sembra quasi preludere ad un cambio d’epoca, allora, immaginare cose del genere è esercitare un dovuto realismo.
Ma, soprattutto, l’impossibilità di escludere questi scenari rende incomprensibile quel che è avvenuto, e sta avvenendo, sul fronte del centro-sinistra. Di questo, però, si è già discusso nell’articolo precedente, del quale all’inizio si è fatto cenno.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.