Per le misure contenute nel Decreto aiuti-bis, il Governo Draghi ha utilizzato un “tesoretto” di risorse derivanti da un gettito superiore alle attese, grazie anche a un Pil cresciuto oltre le stime. Tuttavia, con la Nadef di settembre, si dovrà prendere atto di una realtà per il 2023 diversa da quella ipotizzata ad aprile con il Def (si prevedeva una crescita del 2,3%, quando le previsioni ora sono inferiori all’1%), anche per quel che riguarda il rapporto deficit/Pil. Il nuovo Esecutivo non avrà quindi molti fondi a disposizione per la Legge di bilancio. Come osserva anche Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle finanze nell’Università di Siena, “attenzione ai conti e poche risorse. Niente di nuovo sotto il sole, direi”.
Anche guardando ai dati relativi al reinvestimento dei titoli di stato acquistati tramite il programma Pepp, appare sempre più chiaro che senza la Bce lo spread italiano sarebbe certamente più elevato. Quanto conterà questo fattore rispetto al momento delicato politico interno, con un nuovo Governo che dovrà formarsi in una fase in cui andrà messa a punto la Legge di bilancio e andranno raggiunti i target previsti nel Pnrr?
Se la domanda è se possa esserci una qualche turbolenza con impennata degli spread in prossimità del voto, mi sentirei di rispondere di no. Un aumento fuori controllo degli spread può essere evitato da un’azione decisa, o anche solo dall’annuncio di un’azione decisa, da parte della Banca centrale europea ed è impensabile che, nell’ipotesi di un attacco speculativo, un’azione del genere venga a mancare proprio in prossimità del voto.
E nella fase successiva?
Parliamo per essere espliciti del possibile Governo FdI-Lega-Forza Italia. Il punto è se un nuovo Esecutivo meno dichiaratamente europeista possa aprire una fase di conflittualità con Bruxelles tale da giustificare un’azione, o meglio una mancata azione, da parte della Bce. Sappiamo che il nuovo Tpi prevede esplicitamente delle condizionalità, anche se le indica come “criteri” più che come “condizioni” e del resto la Bce ha spesso agito sulla base di condizionalità implicite. Tuttavia, non siamo più nel 2018, quando si toccò con mano la difficoltà di un braccio di ferro con la Commissione in sede di Legge di bilancio. Da un lato, tutte le forze politiche hanno capito che un attacco frontale all’Ue non è praticabile e, infatti, vediamo, al di là di possibili intenzioni non dichiarate, dichiarazioni prudenti e posizioni abbottonate. La Meloni ha dichiarato in tre lingue di non essere una minaccia per l’Ue. Dall’altro lato, non è interesse dell’Ue lasciare che ai problemi in corso si aggiungano tensioni con l’Italia. Credo che, per lo meno nella fase iniziale, Bruxelles darà credito al nuovo Governo e quest’ultimo non avrà interesse a consumare tale credito.
Tra non molto si dovrà tornare a parlare di riforma del Patto di stabilità. Lei ha segnalato in questo senso un documento del Governo tedesco che non sembra far presagire nulla di buono. Ce ne può parlare?
È un documento nel quale si esplicita la posizione del Governo tedesco sulla riforma delle regole fiscali europee. Curiosamente, viene dal ministero degli Affari economici, guidato dal vice-cancelliere e leader dei Verdi, non dal ministero delle Finanze a guida liberale, quindi è già probabilmente frutto di una mediazione tra le varie anime di quel Governo. Si dice in modo diretto che la riduzione del debito resta una priorità e l’impianto delle regole esistenti, basate sul saldo strutturale, resta valido. Si chiude su ogni ipotesi di vincoli “individualizzati” per il singolo Paese, che da noi aveva suscitato molta approvazione perché sarebbe stata un elemento rilevante di flessibilità. Si insiste, come da sempre fa la Germania, sulla necessità di maggiori automatismi nell’attivazione delle procedure di infrazione, per evitare che considerazioni politiche assolvano i paesi non in linea con le regole.
Dunque chiusura su tutta la linea?
Ci sono per la verità due aperture limitate, ma da non trascurare: la prima è sulla disapplicazione della “regola del debito”, quella per noi più onerosa, che nella proposta dovrebbe considerarsi soddisfatta se è rispettato il pareggio di bilancio strutturale. La seconda riguarda le spese per investimenti finalizzati alla crescita: pur nel rifiuto della cosiddetta golden rule, in base alla quale tutti gli investimenti resterebbero esclusi dal calcolo del saldo di bilancio, si prevede un aumento dei casi in cui tale esclusione è ammessa.
Di fronte a questo “passo indietro” tedesco, qual è secondo lei il punto chiave (inteso come modifica necessaria) su cui il nuovo Governo dovrà insistere per fare in modo che il nostro Paese non venga penalizzato come in passato?
Beh, non so se sia un passo indietro, la Germania finora non aveva calato le carte. Dove spingere? Ovunque troviamo spazio per farlo, per fortuna su questo è ormai maturata nel nostro Paese una consapevolezza bipartisan. Il documento tedesco è una posizione negoziale. Una posizione che pesa, visto che viene dalla Germania, ma il punto di caduta sarà un compromesso tra tale posizione, quelle ancor più rigide dei Paesi del fronte dei “frugali” del Nord Europa, e la linea franco-italiana e mediterranea che chiede una discontinuità. Come dicevo, per noi è estremamente penalizzante la regola del debito, quindi l’apertura tedesca è importante. Poi, il riferimento al saldo strutturale ha posto molti problemi anche sul piano tecnico, quindi su quello insisterei. Infine, per noi è sempre stato utile mantenere spazi di flessibilità nell’applicazione delle regole, anche se questa è un’arma a doppio taglio perché poi la severità delle regole potrebbe dipendere da criteri politici.
È vero che le regole del Patto di stabilità resteranno sospese anche il prossimo anno, ma sia il Tpi che il programma di riacquisto titoli nell’ambito del Pepp sono discrezionali. Quanto questa discrezionalità peserà sul nostro Paese?
Alludevo proprio a questo parlando di arma a doppio taglio: da un lato la flessibilità e la discrezionalità consentono alle regole di essere meno rigide e “stupide”. In particolare quando ad agire è la Banca centrale un po’ di ambiguità su modi e termini degli interventi può essere utile come deterrente verso la speculazione. D’altra parte, la discrezionalità inevitabilmente lascia spazio a considerazioni che possono andare oltre l’aspetto della politica monetaria in senso stretto, ammesso che tale politica possa essere separata da tutto il resto. Le condizionalità introdotte consentono un giudizio di merito sulle politiche di un Governo, che difficilmente può essere oggettivo e distaccato, è facile che venga a dipenda da considerazioni di “piacimento” politico. Ciò potrebbe diventare un inaccettabile strumento di condizionamento della politica dei Paesi membri.
Con la caduta del Governo Draghi appare impossibile andare oltre il ddl delega sulla riforma fiscale. Una buona o una cattiva notizia? Il nuovo Esecutivo potrà agire sul sistema fiscale come meglio crede o si troverà comunque di fronte a delle limitazioni?
Non credo che questa delega fiscale sarà varata in questa forma. Sono stato critico con la delega perché non affrontava i veri nodi fiscali, ovvero una razionalizzazione del sistema tributario secondo un disegno coerente, ma dalle proposte che leggo dubito che questo verrebbe fatto da un ipotetico Governo di destra. Sento parlare di ulteriori estensioni dei regimi speciali, quando sarebbe desiderabile una loro eliminazione. Sul fisco gli spazi di manovra di un nuovo Esecutivo sono comunque limitati dalle esigenze di gettito, che non consentono riduzioni significative della pressione fiscale complessiva. Nelle raccomandazioni dell’Ue c’erano anche indicazioni su aspetti specifici, come la revisione del catasto, sul quale conosciamo la contrarietà della destra.
In precedenti interviste, aveva ricordato il problema del fiscal drag. Come potrebbe essere affrontato dal nuovo Parlamento e dal nuovo Governo?
Il problema del fiscal drag si pone in presenza di inflazione e di indicizzazione dei redditi. Se i redditi sono indicizzati, il loro aumento nominale non rappresenta un aumento reale, cioè un aumento del potere di acquisto, dunque è giusto evitare che il carico fiscale aumenti per effetto della progressività dell’imposta (tale aumento è detto fiscal drag). Ma credo che dobbiamo chiederci innanzitutto se i redditi stiano aumentando in risposta all’inflazione. In caso contrario il problema è ben più serio di quello posto dal fiscal drag, il problema è l’impoverimento generale.
Guardando invece alla situazione economica e sociale complessiva, quanto è preoccupato per l’autunno e l’inverno che abbiamo davanti vista la crisi energetica in corso?
Come credo tutti, sono molto preoccupato. Il fatto che la Russia sia passata in pochi mesi da essere partner economico a nemico con il quale interrompere ogni relazione di scambio avrà ripercussioni pesanti e a lungo termine per la nostra economia.
(Lorenzo Torrisi)
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