“CORRIERE DELLA SERA” CONDANNATO IN UK PER IL PROCESSO BECCIU
Lo scorso 11 agosto il quotidiano “Libero” con Renato Farina dava in esclusiva la notizia secondo cui i giudici inglesi hanno condannato il Vaticano al risarcimento sul caso del Palazzo di Sloane Avenue a Londra, comunemente noto come “Caso Becciu” per via del suo imputato più illustre, il Cardinale ex n.3 della Santa Sede. Lo scorso 26 luglio la Segreteria di Stato in Vaticano sarebbe dunque stata condannata al risarcimento provvisorio di 200mila sterline per le spese legali di Raffaele Mincione, uno degli imputati del processo in Vaticano: il Tribunale di Londra nella sentenza sconfessava il fatto che il Vaticano sia stato parte neutrale nella vicenda Becciu. Farina nel suo scoop spiegava come la sentenza di fine luglio sosteneva come «la Segreteria di Stato, tramite i suoi legali, lo scorso ottobre, aveva fatto credere al giudice di primo grado che pur essendosi costituita parte civile contro tutti gli imputati essa giurava di essere “neutrale”, che pertanto bisognava bloccare la causa intentata da Mincione, in quanto si trattava di un “abuso”, un modo per aggirare la giustizia di uno Stato sovrano qual è il Vaticano».
Arriviamo così una settimana dopo ad un secondo articolo di “Libero”, sempre a firma Farina, in cui viene data una seconda importante notizia come “filone” a margine della questione Vaticano-Palazzo Londra: «il Corriere della Sera è stato condannato perché non fa giornalismo», titola il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti riferendosi ad un’altra sentenza della Corte inglese. In 8 pagine di sentenza, spiega Farina, il giudice Master Davison lo scorso 12 agosto diede ragione a Mincione e torto invece al “Corriere” in merito alle notizie pubblicate negli anni scorsi sul caso del Palazzo londinese. Facciamo dunque un passo indietro nel tempo e torniamo al novembre 2019 quando sul quotidiano italiano la giornalista Fiorenza Sarzanini pubblicava un presunto scoop: «Roma, la truffa del palazzo venduto al Vaticano con i soldi di Enasarco», era il titolo del pezzo in cui fonti confidenziali del “Corriere” sostenevano che Mincione fosse «indagato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla truffa». In un altro articolo successivo di quegli stessi giorni, a firma Mario Gerevini e Fabrizio Massaro, ancora Raffaele Mincione viene accusato di essersi «appropriato indebitamente di parte del denaro (200 milioni di dollari) investiti dal Vaticano», sempre come diretta conseguenza dell’affare di Sloane Avenue, 60.
FARINA: “C’È UN GIUDICE A LONDRA…”. ECCO COSA È SUCCESSO
Ebbene, qui il Tribunale di Londra interviene e condanna il “Corriere della Sera” per aver pubblicato notizie, scoop e presunti avvisi di garanzia prima che l’indagato fosse informato: nulla di nuovo – aggiungiamo noi – nella poco felice tradizione giustizialista della stampa italiana in relazione alle notizie giudiziarie, ma per la Gran Bretagna l’iter seguito è tutt’altro che “normale”. Secondo quanto sostiene ancora Renato Fatina su “Libero”, «Il giudice manifesta addirittura stupefazione per il costume italiano di pubblicare sui giornali avvisi di garanzia prima che dell’essere indagato sia informato il diretto interessato. Tutto questo mr. Davison se l’è trovato sotto il naso, tranquillamente rivendicato come prassi del rito giornalistico italiano, e perciò impunito e accettato». In attesa di capire se il processo londinese porterà alla condanna o meno per diffamazione del quotidiano di Via Solferino, la fase istruttoria del rito civile inglese ha già ritenuto il cittadino italo-britannico Raffaele Mincione, residente a Londra, con «pieno diritto a farsi valere in Inghilterra».
Il giudice ha tacciato di «genericità» le argomentazioni usate dal “Corriere” e così ha condannato a rifondere le spese legali a Mincione (circa 30 mila sterline, ma la cifra sarà quantificata con esattezza in settembre, spiega “LIbero”). Il giudice Davison nella sua sentenza arriva quasi a “ridicolizzare” le tesi del “Corriere” riportate in dibattimento dall’avvocato Adam Wolanski: «Le circostanze da tenere in considerazione da parte del giudice devono, ovviamente, includere gli standard legali e giornalistici applicabili in Italia nel momento in cui gli articoli sono stati preparati e pubblicati». Farina esulta sostenendo che «esiste un giudice a Londra», finalmente: il motivo è tutto nella risposta, e sentenza, di Londra. La tesi del “Corriere” è che l’eventuale non veridicità dello scoop debba essere in qualche modo “perdonato” e non giudicato secondo gli standard inglesi, bensì per le usanze giornalistiche italiane. Il giudice è stato di tutt’altro avviso, conclude Farina: «per il lui è assurda è la prassi per cui un giornalista italiano può in base ai costumi giornalistici italiani saltare la legge italiana che pure vieta di rivelare il segreto istruttorio. In Italia facciano quel che gli pare, ma se un articolo sul web è acquistabile a Londra (e lo è) ed offende un inglese, cari miei, usiamo la nostra idea di che cosa valga la reputazione di una persona e come essa sia intangibile».