“Nonostante tutto, il nostro Dio resta un inguaribile appassionato dell’umano. Ci vuole con Lui” dice al Sussidiario il card. Matteo Zuppi, neopresidente della Cei. Oggi “don Matteo” – ci tiene a farsi chiamare così, non è understatement, ma spirito di servizio, quello che papa Francesco apprezza – sarà al Meeting di Rimini, ospite dell’appuntamento che dà il titolo alla kermesse di Cl: “Una passione per l’uomo”.
Quando lo abbiamo chiamato, don Matteo era appena tornato dal Mozambico. Un viaggio attuale, e si capisce perché. Poi il discorso va sull’Italia, le elezioni, le sfide della Chiesa e don Giussani. Il suo carisma “è una grande avventura”, spiega l’arcivescovo di Bologna, “non un cammino che definisco, ma l’essere condotto dall’amore di Dio dove vuole Lui. E l’amore di Dio non si ripete, si rinnova”.
Abbiamo una guerra alle porte, e forse anche noi siamo belligeranti. La pace è ancora possibile?
La pace è sempre possibile, bisogna però volerla e andarla a cercare ad ogni costo, nei modi giusti e con forte determinazione. Anche nel caso dell’Ucraina. Se è stato trovato un accordo sul grano, lo stesso si può fare per mettere fine alle ostilità. Non possiamo mai abituarci alla guerra.
Come bisogna fare?
Ci vuole la capacità di mettere insieme i vari attori, coinvolgendo tutti.
Lei è appena stato in Mozambico, un’esperienza cui tiene molto. Perché?
Non solo per le vicende che ci hanno visto coinvolti (come comunità di Sant’Egidio, ndr) e che ormai fanno parte della mia vita. Nel Mozambico della guerra civile la situazione sembrava in-componibile, i guerriglieri erano ritenuti un interlocutore inaffidabile, gli interessi anche esterni nella regione erano tanti.
Lei ha detto che quegli accordi di pace, nel ’92, dopo 17 anni di guerra civile, sono stati anche una grande lezione di metodo. Perché?
In Mozambico siamo arrivati alla pace con una formula non “chimica”, non riproducibile. Fu l’unico caso che vide lavorare assieme per una mediazione realtà governative e non governative. Sa cosa disse Boutros-Ghali?
No, ci dica.
La chiamò “formula italiana”: difficile da spiegare, come la nostra grammatica, ma consistente nel realismo e nella flessibilità che servono per riunire gli attori in grado di aiutare la pace non secondo una regola formale, ma di efficacia. Se oggi questo metodo diventasse quello europeo, sarebbe un grande bene per tutti. Non dobbiamo coinvolgere tutti gli attori?
Torniamo all’Italia. La precarietà economica e lavorativa sono in aumento, andiamo verso un autunno pieno di gravi incognite. Il Paese va alle urne. È un bene o un male?
Ritengo che sarebbe stato buon senso evitarle, non è andata così, e adesso le elezioni ci sono. Le si affronti, con senso di responsabilità, per dare stabilità al Paese. È vero, siamo in un momento complicatissimo, fatti di vecchi conguagli e nuove crisi. Abbiamo 6 milioni di poveri che con l’inflazione potrebbero aumentare. Proprio per questo occorre che la politica faccia la politica.
Cosa significa?
Non viva di visioni condominiali, provi ad avere una visione generale complessiva alta, di grande idealità e rivolta al futuro, consapevole dell’interesse nazionale. Oggi serve molta competenza, determinazione, visione. E umiltà.
Perché oggi un cattolico dovrebbe andare a votare?
Perché a maggior ragione un cristiano che ha a cuore la vita delle persone, cioè il suo prossimo, deve impegnarsi in tutto ciò che può favorire la difesa della persona. Il voto è questo. C’è libertà di coscienza, ma non libertà di disinteresse. Anzi, proprio perché la situazione è grave serve un impegno ancor più grande.
Il bene comune è nemico delle visioni e delle soluzioni di parte?
Bene comune è una parola che va usata con castità, altrimenti diventa un imbroglio. Se non persegue il bene comune, la politica diventa gestione clientelare, personalistica, soggettivistica, corrotta. Fare il proprio interesse è già una corruzione della politica, invece orientarsi al bene comune è liberante. Permette di trovare soluzioni politiche diverse, nuove.
Che cosa la sta colpendo della Chiesa italiana in questo inizio di mandato alla Cei?
Vedo tanto desiderio di essere vicino alle persone che soffrono, tanta prassi che spesso non corrisponde ad immagini precostituite.
Che cosa intende?
La Chiesa è vista molte volte come matrigna e non come madre, invece sto sperimentando tanta maternità. Certo, anche tanta fatica di fronte alle domande, alle sfide che interrogano tutti, e dunque anche la Chiesa.
Il modello tradizionale, tridentino, parroco-chiesa-territorio risponde ai problemi con cui oggi la Chiesa deve fare i conti?
Bisogna aggiungere un ingrediente fondamentale, che è quello della comunione. Senza questa il rapporto parroco-parrocchia non funziona più. Il Concilio ha regalato alla Chiesa una responsabilità che coinvolge tutta la comunità. Servire la comunione oggi è la vera sfida.
Come si fa ad averla?
La comunione non è un nostro prodotto, è un dono che lo Spirito ci affida. Se noi ne facciamo oggetto di possesso, se la deleghiamo, la roviniamo. Possesso e individualismo sono il contrario della comunione. Solo in comunione possiamo ritrovare noi stessi, capire chi siamo.
Può spiegarci meglio?
Quante volte diciamo di essere alla ricerca dell’io? Ma se siamo così fragili, è perché non sappiamo più cos’è il noi, anzi lo pieghiamo sfrontatamente all’io. Vale per tutti, anche nella Chiesa. Questo è frutto del relativismo, quel relativismo nemico della persona che diceva papa Benedetto XVI. Ma c’è anche un relativismo buono, cristiano.
E in cosa consiste?
Nel relativizzare l’io a Dio e al noi. Solo così l’io ritrova se stesso. A noi – a me – interessa ritrovarmi, dare valore e senso al mio io, perché mi voglio bene, perché tengo a me stesso. Per questo ho bisogno del “relativismo” cristiano. Esso mi fa dipendere da Colui che è il mio primo prossimo, e che mi insegna ad esserlo per gli altri.
Una commissione di inchiesta sta affrontando il problema degli abusi. Ma l’indagine conoscitiva è rivolta al passato. Cosa bisogna fare per risolvere il problema in futuro? Va cambiata mentalità nei preti?
Va cambiata la mentalità di tutti. Qualcuno fa dipendere gli abusi dal celibato, ma non è lì il problema, perché la maggior parte degli abusi avvengono in famiglia, nello sport, realtà che non mi sembrano fatte di celibi. Che cosa dobbiamo fare? Certamente migliorare la formazione dei preti, ma soprattutto fare una grande opera di prevenzione, coinvolgendo tutta la Chiesa, associazioni e movimenti. Senza caccia alle streghe, senza puritanesimi farisaici, ma con rigore e molto realismo.
È il centenario della nascita di don Giussani. Il fondatore di Cl è ancora un dono vivo per la Chiesa?
Sì, tantissimo. Ce lo ricordano le tante, incalcolabili realtà che Cl ha generato e genera. Peraltro è un dono riconosciuto dalla Chiesa nella sua maternità. Il dono di don Giussani è una grande avventura.
Perché un’avventura?
Avventura perché ogni dono dello Spirito non è un programma che realizzo, ma una passione che vivo, non un cammino che definisco, ma l’essere condotto dall’amore di Dio dove vuole Lui. E l’amore di Dio non si ripete, si rinnova. Oggi invece abbiamo la tentazione di essere “compilativi” piuttosto che creativi e generativi; e abbiamo paura, perché crediamo più ai programmi che all’amore di Dio. Proprio per questo l’incontro con l’uomo così com’è, che ha tanto appassionato Giussani, è ancor più necessario a tutti noi e alla Chiesa. Ne hanno bisogno tanti giovani, tante persone che hanno desiderio di bello, di vero, di buono, cercano chi li realizzi ma non sanno dargli un Volto.
Il movimento di Cl ha attraversato una fase convulsa, avente al centro, per diversi aspetti, la parola “carisma”. Che cosa si sente di dire in proposito?
Il centenario è un’ottima occasione per riflettere sulla storia e sul dono del carisma di Giussani, che è poi il carisma di tutto il movimento. Tutti i doni ci sono affidati per farli fruttificare. Occorre mettersi in gioco per far sì che il carisma produca frutti, e mettere da parte le difficoltà e la soggettività che non aiutano. Il carisma non è mai una ripetizione, è sempre generativo, come tutte le cose dello Spirito. E unisce: è un fatto di comunione, lo avete nel nome.
Quale azione discende da questa consapevolezza?
Testimoniare ciò che il carisma significa per la vita. Quanti desideri, i più veri, quelli che definiscono la vita, restano nel cuore perché non incontrano qualcuno e questo incontro diventa un avvenimento? Ecco la passione per l’umano. In questo scopriamo Dio e Dio ci fa scoprire l’umano. Nonostante tutto, il nostro Dio resta un inguaribile appassionato dell’umano. Ci vuole con Lui.
(Federico Ferraù)
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