Mentre rombano motori della campagna elettorale e si ricomincia a parlare di riforma della giustizia ancor prima che veda la luce quella firmata dalla ministra Cartabia, molto interesse ha suscitato fra gli addetti ai lavori le motivazioni della sentenza depositata a inizio agosto con cui la Corte di assise di appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto Marcello Dell’Utri – con la formula “per non aver commesso il fatto” –, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno – con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Le questioni poste dalla sentenza appaiono tuttavia di estremo interesse anche per l’intera opinione pubblica che sulle vicende mafiose dovrebbe sempre tenere un faro acceso. In considerazione della delicatezza degli argomenti trattati, non potevano mancare letture contrapposte al provvedimento giudiziario che ha di fatto mandato in soffitta l’indagine che per anni ha impegnato la procura della Repubblica di Palermo sulla così detta “trattativa Stato-mafia”.
Proviamo allora, a beneficio dei meno esperti in queste faccende, a fare un po’ d’ordine.
Prima ancora di entrare nel merito, occorre precisare che le motivazioni della sentenza constano di ben 3mila pagine circa e sono suddivise in tre parti: la prima (da p. 86 a p. 991) è dedicata all’esposizione della sentenza di primo grado, con la ricostruzione dei fatti e le valutazioni operate dalla Corte di primo grado; la seconda (da p. 992 a p. 1255) è dedicata all’esposizione dei singoli atti d’appello, mentre la terza (da p. 1256 a p. 2968) è la vera e propria motivazione della sentenza d’appello, in cui si espongono la (parzialmente) diversa ricostruzione e le differenti valutazioni formulate in esito al giudizio d’appello dalla Corte d’assise d’appello.
Realizzare una lettura unitaria dell’intero provvedimento è opera non facile. In estrema sintesi, vi si afferma che sì, vi fu l’iniziativa dei vertici del Ros dopo l’omicidio Falcone di bloccare l’azione stragista intrapresa dai corleonesi, ma essa, a differenza di quanto sostenuto dalla procura di Palermo, non mirò affatto a “creare le basi di un accordo politico” con Cosa nostra.
L’affermazione non appare di poco momento e segna la differenza con la sentenza di primo grado.
Sebbene, come vedremo, le motivazioni presentino non pochi punti di perplessità, su un punto hanno l’indubbio merito di fare chiarezza. Scrivono infatti i giudici, che “(..) sebbene fosse molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo ‘politico’ con gli stessi autori della minaccia mafiosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nuove stragi ed arrestare l’escalation mafiosa. Al contrario, l’obbiettivo era disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti”.
La Corte d’assise d’appello sposa in sostanza la ricostruzione secondo la quale, in seguito all’omicidio di Salvo Lima il 12 marzo 1992, e soprattutto di Giovanni Falcone il 23 maggio dello stesso anno, tra lo Stato e la mafia non si avviò alcuna trattativa su ordine di esponenti politici e di governo, fatta di reciproche proposte e concessioni; al contrario, ciò che avvenne fu invece un’autonoma iniziativa di alti ufficiali dei Carabinieri, ovvero Mori e De Donno, che contattarono Vito Ciancimino per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, cercando al contempo di “instaurare un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato”.
Viene così archiviata la grande suggestione della “trattativa Stato-mafia” che, sin dall’inizio, aveva destato non poche perplessità da parte della maggioranza degli addetti ai lavori. Al contempo, provando a rivolgere alla sentenza uno sguardo oggettivo, non si può non rilevare come essa non riesca a sottrarsi alla tentazione di assumere le sembianze di un lungo “romanzo storico” sui rapporti tra mafia, politica e Ros, piuttosto che a un provvedimento giudiziario.
Se, tuttavia, è la stessa ipotesi accusatoria a rendere quasi inevitabile questo effetto, le motivazioni non lesinano nel propugnare al lettore granitiche certezze su ogni singolo evento che ha segnato quel periodo sanguinario, nonostante ogni fatto appaia suscettibile di essere interpretato in maniera diversa.
Non si comprende, ad esempio, su quali basi probatorie si affermi che l’intenzione dei vertici del Ros fosse quella di “insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa nostra” tra un’ala stragista guidata da Riina e una ritenuta più moderata capeggiata da Provenzano. Altrettanto discutibile appare la decisione dei giudici di tornare su due eventi già oggetto di processi e su cui i vertici dei Ros sono già stati assolti, come la mancata perquisizione del covo di Riina, definita un “segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”, e persino sulla latitanza di Provenzano, che i Ros avrebbero “favorito in modo soft”. Il rilievo è sull’opportunità che la sentenza abbia affrontato questi argomenti ponendosi in sostanziale contraddizione con le sentenze specifiche che di quei fatti si sono occupati con ciò sollevando un problema di ne bis in idem. Tuttavia, occorre riconoscerlo, la Corte d’assise d’appello, nell’offrire una ricostruzione che attribuisce a una precisa scelta la mancata perquisizione, va nella direzione di avallare una ipotesi che appare più logica rispetto a quella ufficiale secondo la quale vi fu una mera incomprensione fra carabinieri e procura della Repubblica, a dimostrazione di quanto le questioni in oggetto siano più complesse di quanto possa apparire e rispetto alle quali permane sembra una considerevole zona grigia. Le stesse entro cui si sono mossi i vertici dei Carabinieri nel contattare Ciancimino.
Spicca poi un ulteriore passaggio in cui, per un verso, si afferma la stipulazione di un accordo elettorale tra Dell’Utri e Cosa nostra in previsione delle elezioni del 1994, rispetto al quale, per altro verso, non avrebbe “fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offese e di presidente del Consiglio per ottenere l’adempimento, appunto sotto la minaccia mafiosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell’Utri nella precedente campagna elettorale”.
Insomma, luci ed ombre. È stato fatto notare, dai fautori della “trattativa”, che la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Palermo si ispirava a un’altra era geologica della storia d’Italia, ovvero quella in cui la lotta alla mafia faceva in qualche modo capolino nelle agende politiche di governo. Ebbene, questo assioma appare francamente pericoloso. Se senza alcun dubbio la sentenza di primo grado si ispirava ad una diversa ricostruzione dei fatti in conseguenza dei quali erano stati condannati i principali imputati, non si deve far passare l’idea che le assoluzioni di secondo grado sono semplicemente ispirate da una volontà di “normalizzazione” nei rapporti fra Stato e mafia. Un approccio di autocritica sarebbe da preferire, senza con ciò volere indebolire il fronte della lotta alla mafia.
Sia chiaro che non si vuole certo affermare il principio che con la mafia si deve trattare o peggio, come disse un ministro della Repubblica, si deve convivere. Tuttavia, che in quel maledetto 1992 alti ufficiali dei Carabinieri abbiano approcciato un personaggio come Ciancimino nella speranza (vana) di bloccare quello che si palesava come il principale pericolo per l’ordine democratico non può per ciò solo essere considerata una trattativa con la mafia, per di più con mandato politico. Ci furono ombre in quella e in tutte le stagioni che ha visto protagonista la mafia e tutto il suo apparato di supporto che coinvolge parte del mondo economico e politico. La citata mancata perquisizione del covo di Riina resta un fulgido esempio, purtroppo, di quelle zone d’ombra. Ma l’imputazione che ha formulato la procura della Repubblica di Palermo sottace a una visione del mondo che crediamo non giovi alla lotta alla mafia.
Su un punto, invece, vi è piena convergenza con quanto afferma il dott. Scarpinato, ovvero che vi erano ben altri scheletri che rischiavano di uscire dall’armadio se Borsellino fosse rimasto in vita e avesse potuto trasfondere in atti giudiziari l’esito delle sue indagini sui responsabili e le complesse causali della strage di Capaci. Scheletri che spiegano perché gli interventi di soggetti esterni attraversino ininterrottamente tutta la sequenza stragista, da Capaci nel maggio ’92 alle stragi del ’93 nel continente, come emerge da una pluralità di elementi probatori e come relazionò la Dia già nel ’93 con un’informativa in cui si comunicava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti dotate di “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Più utile scavare a fondo sulle ragioni sottese al clamoroso depistaggio sulla strage di via d’Amelio, avallato da pubblici ministeri e giudici. Più utile capire chi e perché era presente, in giacca e cravatta, sul luogo della strage a pochi minuti dall’esplosione, chi ha sottratto la famosa agenda rossa e soprattutto il perché della clamorosa scelta di accelerare la strage. Non vogliamo negare l’esistenza di distorti rapporti fra Stato e mafia, ma solo dire che essi non si concretizzano in quel disperato approccio fra i Ros e Ciancimino.
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