Non rinunciare alla propria umanità, non cedere a sentimenti di vendetta anche quando ti sei visto portar via la vita, le persone e le cose più care, e non perché tu sia generoso e disposto a passare sopra ogni torto – no! Ma perché questo ti distrugge e non ti consente di vivere una vita che può sempre essere umana, nonostante tutto. Non è un pio fervorino, pronunciato al sicuro da chi non è mai passato attraverso gli orrori di guerre, violenze e persecuzioni: è invece il messaggio che ci viene da centinaia di voci di uomini e donne passati attraverso l’inferno dei lager staliniani all’epoca del Grande Terrore. Un messaggio veicolato dalla mostra – “Uomini nonostante tutto” – che quest’anno la Fondazione Russia Cristiana propone, insieme a Memorial, al Meeting di Rimini.
È in questo messaggio, io credo, nel nostro contesto odierno la straordinaria attualità di una mostra che privilegia volti e storie di persone e nuclei familiari, riportando alla luce episodi drammatici, a volte strazianti, ricostruiti attraverso gli scarni documenti dell’epoca, custoditi per anni con timore e trepidazione negli archivi familiari: un mosaico di nomi, lettere, fascicoli processuali, oggetti sottratti alla distruzione cui li condannavano il regime e la paura dei sopravvissuti, che è stato studiato e ricostruito negli anni da Memorial, la prima associazione indipendente nata in Russia agli inizi della perestrojka e liquidata dal regime putiniano nel dicembre scorso. Oggi il museo e gli archivi di Memorial, nati dall’apporto di migliaia di persone che negli anni vi hanno fatto confluire il patrimonio delle loro memorie, sono sotto sequestro. Grazie alla digitalizzazione della maggior parte dei reperti e documenti, tuttavia, è stato possibile realizzare questa mostra.
Ne emergono alcuni dati a prima vista sconcertanti. Nella maggior parte dei casi siamo di fronte a persone comuni, che hanno sovente salutato la rivoluzione del 1917 come una reale possibilità di realizzare un mondo più giusto e vivibile e sono in tutto figli dell’epoca sovietica: non credono di regola in Dio e nutrono fiducia nei confronti del partito, cercano di svolgere nel migliore dei modi il proprio servizio alla società quando d’un tratto, inspiegabilmente per loro, vedono abbattersi su di sé e sui propri cari la mannaia di un destino atroce e ineluttabile. L’“umanesimo ateo”, la fede nel socialismo di cui vivevano, talvolta con entusiasmo, quasi sempre con spirito di sacrificio e dedizione, mostrano all’improvviso la corda, affiorano angosciosi dubbi, interrogativi. Per alcuni dei protagonisti delle nostre storie comincia un vero e proprio “viaggio nella vertigine” (per usare il titolo del drammatico, splendido volume di memorie di Evgenija Ginzburg, più volte citato nella mostra), che li condurrà a scoprire una verità nuova, scomoda ma finalmente reale, libera dagli orpelli dell’ideologia: l’io e le sue autentiche dimensioni – libertà, responsabilità, compassione, amore.
Per altri questo cammino non sarà così distintamente tracciato, ma mostrerà pur sempre alcuni solidi punti di appoggio: il primo, indubitabilmente, sono i rapporti familiari, poi viene il proprio patrimonio di esperienza e di cultura, ancorato a un innato senso della dignità umana. Ma è possibile conservare una propria dignità, non farsi prendere dalla disperazione e restare persone umane, nella misura in cui si sa di essere amati, attesi, e soprattutto di avere delle responsabilità educative, il dovere di trasmettere ai propri cari, ai propri figli, quanto si ha di più prezioso.
La famiglia, nonostante i tentativi messi in atto fin dall’inizio dal regime di scardinarne i legami per sostituirvi i rapporti sociali e la coscienza di classe, si rivela il nucleo vitale a cui la persona si aggrappa: “Voi siete la stella che mi rischiara il cammino”, scriverà alla moglie e alla figlia Aleksej Wangenheim, celebre meteorologo e amico personale di Stalin, internato nel lager delle Solovki e fucilato nel 1937. Dai lager giungono ai bambini lettere, disegni, ma anche quiz di carattere scientifico, fiabe in versi, indicazioni di letture: senza entrare nel merito di giudizi storici e politici (i figli dovevano pur vivere nel regime sovietico, restandone cittadini leali pur con la pesante eredità di un genitore bollato come “traditore della patria”), si cerca di trasmettere loro i principi morali di onestà, rettitudine, spirito di sacrificio, insomma tutto ciò che resta alla persona quando d’un tratto viene spogliata di ogni riconoscimento sociale e bene materiale.
Particolarmente drammatica la condizione della donna, sottoposta a condizioni di vita e di lavoro durissime, alla mercé della violenza dei sorveglianti e dei delinquenti comuni. In mostra sono riportati cenni di storie di orrore quotidiano: “Esauste, sporche, lacere, i volti irruviditi dai raggi e dal vento polare. Occhi velati, come se fossero passati con la carta vetrata, a causa dell’accecante biancore, della fame. Nasi screpolati, sulle guance macchie scure lasciate dalla morsa del gelo. Chi penserebbe che tra questi spauracchi ci siano arpiste e violiniste, scienziate, propagandiste politiche, insegnanti? La maggioranza è stata ‘rieducata’. Le hanno stordite a furia di botte. I colpi subiti hanno fatto saltar via il senso di dignità, del proprio valore umano. Realizzare quello che è successo è spaventoso. Accettarlo interiormente, è impossibile” (Marija Ioffe).
Oppure: “In fila un centinaio di corpi femminili. Arriva la commissione. Smarrimento delle donne: ‘Lasciateci vestire! Ma che fate, siamo nude!’. Il maggiore ispeziona la fila, getta rapide occhiate ai corpi. Sceglie la merce – tu in fabbrica, alle confezioni! Tu in campagna! Nella zona del campo! In infermeria! L’attendente prende nota dei nomi” (Nina Gagen-Torn).
Particolarmente cruda è quella che in mostra è stata intitolata “Maternità violata”, e cioè la forzata separazione dalle madri dei bambini nati nei lager e la loro altissima mortalità: “La mia bambina non venne alla luce in una maternità ma in uno sperduto lager. Le cimici piovevano dal soffitto e dalle pareti come polvere. Passavamo le notti a toglierle ai bambini… Il mio angioletto paffuto dai riccioli d’oro si trasformò presto in un’ombra palliduccia con i cerchi intorno agli occhi e le labbruzze screpolate. Una sera, tornata con una bracciata di legna da ardere, il suo lettino era vuoto. Non so dove sia la sua tomba… Non mi fu dato il permesso di uscire dalla zona per seppellirla con le mie mani” (Chava Volovič).
In queste storie non si troverà un “lieto fine” nel senso tradizionale: anche il ritorno dei genitori dai lager è doloroso, perché nella maggior parte dei casi i figli non riescono a riconoscere nelle donne ingrigite, spente, sdentate che si trovano davanti le mamme giovani e belle che avevano conservato nel loro ricordo; per molti bambini la famiglia è ormai un’altra, altri sono gli affetti e i sentimenti di cui è fatto il loro quotidiano… Eppure, queste storie hanno un bel finale”, nel senso che nella maggior parte dei casi il loro messaggio raggiunge il destinatario, costruisce le vite dei figli, che ne serbano la memoria, insieme alle lettere e ai piccoli regali.
E così pure, ci imbattiamo in un “bel finale” anche in episodi di vita in detenzione, in circostanze e condizioni di vita spaventose tra cui talvolta vengono alla luce minuscoli spiragli di umanità, il “miracolo quotidiano” che rende possibile continuare a vivere; e infine, nel ritornare in libertà e ritrovare i propri figli e familiari, con i quali bisogna imparare nuovamente a vivere, dopo la lunga parentesi del mondo dietro il filo spinato, con tutte le sue profonde ferite.
Come dice Evgenija Ginzburg: “Parecchie volte, durante i miei diciotto anni di ‘passione’, mi sono trovata faccia a faccia con la Morte. Ma sono sempre riuscita ad abituarmi alla cosa. Ogni volta reagivo con lo stesso terrore, con la ricerca spasmodica di una via d’uscita. E ogni volta il mio organismo sano e resistente trovava qualche scappatoia che mi permetteva di sopravvivere. E, cosa ancora più importante, ogni volta mi veniva in aiuto qualche evento che, a prima vista assolutamente accidentale, era in effetti una manifestazione normale di quel Bene che, nonostante tutto, regna sul mondo”.
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