La morte di Filippo Beltrami (Megolo, 13 febbraio 1944) fu favorita dal capo partigiano comunista Vincenzo (“Cino”) Moscatelli?
È uno dei tanti capitoli tuttora controversi della Resistenza, anche se a guerra finita (dicembre 1946) – ma era già iniziato lo scontro politico tra democristiani e comunisti – un giornale vicino alla Dc (La Verità) accusò apertamente Moscatelli non solo di non essere intervenuto a rompere l’accerchiamento dell’alleato, ma addirittura di aver ucciso la staffetta che Beltrami aveva inviato per chiedere rinforzi anche perché riteneva imminente il loro arrivo.
Limitiamoci però all’essenza politica, ovvero al chiaro tentativo da parte di Moscatelli – che prese corpo progressivamente dalla fine del ’43 – non solo di ridurre l’influenza di una banda “concorrente”, ma soprattutto di un leader come Beltrami, capace di calamitare intorno a sé numerosi giovani borghesi che salirono in montagna (in inverno!) pieni di entusiasmo ed idealità, ma anche senza valutarne le conseguenze e soprattutto senza un’adeguata preparazione.
Le brigate comuniste si dimostrarono invece da subito superiori per inquadramento e disciplina, ma soprattutto perché alla lotta armata faceva da supporto un profondo lavoro politico ed anche una costante verifica ideologica degli organici.
È un aspetto importante in vista di quanto avverrà nei mesi successivi: i “garibaldini” non esitavano nei colpi di mano esponendo la popolazione civile alle rappresaglie, i gruppi cattolici e “badogliani” sembrano invece avere una propria etica nelle azioni, tenendo senz’altro in maggior conto le conseguenze della reazione fascista e tedesca.
Nei mesi successivi e prima del fatale scontro di Megolo (13 febbraio 1944), Beltrami unisce le proprie forze a quelle di un altro leader della resistenza cattolica, il maggiore dell’esercito Alfredo Di Dio, ed insieme cominciano a rappresentare una potenziale una minaccia per l’egemonia comunista della zona.
L’ 8 gennaio del 1944 Beltrami si incontra per alcune ore ad Armeno (Novara) addirittura contestualmente con il capo della provincia (il già ricordato prefetto Dante Tuninetti), il vescovo mons. Ossola ed il questore di Novara. Presente è anche l’altro capo partigiano, Alfredo Di Dio, e questo silenzioso mutuo riconoscimento tra le parti crea scompiglio e reazioni nel campo della Resistenza.
Si parla a lungo di un accordo per la gestione del territorio e dell’ipotesi di creare una zona smilitarizzata ai piedi delle Alpi, ma è impossibile sapere quale strada avrebbe preso questo tentativo di accordo: Beltrami verrà ucciso a Megolo solo un mese dopo.
Alfredo Di Dio e la “Valtoce”
Alfredo Di Dio – già responsabile militare della brigata “Beltrami” dopo l’unificazione delle due unità – si salvò a Megolo perché detenuto nel carcere di San Vittore, a Milano, dove era stato intercettato dalla polizia fascista. Era infatti giunto nel capoluogo lombardo con un salvacondotto emesso dalle autorità fasciste di Novara e con l’impegno dichiarato (gli accordi sembra fossero stati presi proprio ad Armeno) di verificare la possibilità di creare zone franche ai piedi delle Alpi in altre province.
In effetti Di Dio fu liberato il 6 marzo e tornò subito in Valstrona, dove riorganizzò una propria unità di impronta democristiana e cattolica, in evidente contatto con il clero locale. Di Dio era anche un militare di carriera con una propria vivace impronta culturale ed era – soprattutto – notoriamente un cattolico anticomunista, tanto che la sua formazione “Valtoce” raccolse molti esponenti dell’Azione Cattolica lombarda e novarese che salivano dalla pianura ed erano avviati in montagna dai parroci della zona.
Una presentazione della sua linea è chiaramente enunciata da un documento programmatico edito il 27 settembre 1944, proprio durante la Repubblica dell’Ossola e pochi giorni prima della sua morte:
“Innanzitutto siamo dei militari. Non vogliamo rilevare il nomignolo di ‘Opera pia’ che talora sentiamo serpeggiare nei nostri confronti. Ma se quei signori (l’allusione è alle formazioni partigiane comuniste, ndr) con ‘Opera pia’ intendono alludere alla dirittura morale del nostro Comando oppure all’assidua protezione ed all’interessamento che da sempre abbiamo inteso per la popolazione civile, allora noi ne siamo fieri.
Noi non discutiamo le varie tendenze politiche ed i vari colori (…), ne facciamo una questione di onestà e serietà. Definire il nostro programma è semplice e breve e si riassume nel motto della nostra formazione: ‘la vita per l’Italia’. Per ora siamo solo dei militari e non vogliamo avere alcuna ingerenza di partito…”.
Dionigi Superti e la “Valdossola”
La terza delle formazioni “autonome” operanti nella zona fu il “Battaglione Valdossola” al comando del maggiore Dionigi Superti.
La caratteristica principale dell’unità fu anche in questo caso una assoluta indipendenza da qualsiasi partito politico – pur ammettendo Superti che chiunque dei suoi membri facesse una eventuale propria propaganda politica all’interno dell’unità – e questo atteggiamento fu guardato con profonda diffidenza anche dai vertici del Cln di Milano che la consideravano politicamente “sospetta”.
D’altronde la figura di Superti è emblematica e controversa: aviatore della squadriglia Baracca nella prima guerra mondiale, legionario fiumano, fascista mai iscritto al Pnf, probabilmente agente segreto italiano (qualche autore lo ritiene invece agente del Sis inglese), residente all’estero dal 1936 al 1940, massone, Superti raccolse l’eredità di Beltrami ed insieme a Bruno Rutto ricostituì un’unità nella primavera del ’44 (chiamata proprio “Beltrami”) politicamente rigidamente autonoma, ma collegata operativamente con la “Valdossola”.
Le brigate “garibaldine”
In campo partigiano vi erano però altre forze di chiaro segno politico, ad iniziare dalle “Brigate Garibaldi”, formalmente autonome ma di fatto strettamente collegate al Pci (Partito comunista italiano) e che in Ossola vedranno impegnati numerosi esponenti di quel partito. A guerra finita, alcuni diventeranno noti leader politici comunisti: da Amendola a Pajetta, da Secchia a Moscatelli. Queste unità “garibaldine” si svilupparono inizialmente in Valsesia, dove di fatto controllarono l’intera vallata e di qui si spinsero poi verso Omegna e la Valstrona per poi spandersi in Ossola, soprattutto dopo la scomparsa del capitano Beltrami.
Inquadrate da commissari politici, efficaci nella diffusione della stampa clandestina, collegate strettamente con i Gap (Gruppi di azione patriottica) della pianura e che nelle città effettuavano audaci colpi di mano ed eliminazioni fisiche di esponenti fascisti, i “garibaldini” non esitarono a tenere rapporti anche duri con le popolazioni delle zone da loro controllate, né mostrarono clemenza con i nemici catturati, adottando spesso il metodo del terrore anche nei confronti delle popolazioni civili.
Numerosi furono a questo proposito gli scontri e le divergenze tra le diverse formazioni partigiane, anche se nella primavera del ’44 si cercò – con tutta una serie di incontri e non senza continue, profonde divergenze – di predisporre un piano insurrezionale comune.
Difficile dare una valutazione numerica delle singole unità partigiane, perché furono sempre di numero estremamente variabile e legato sia alle contingenze stagionali sia anche al passaggio di uomini da questa o quella formazione. Si può parlare comunque di diverse centinaia di uomini, dei quali però solo una parte effettivamente combattenti, e dei quali le brigate Garibaldi rappresentavano da sole circa il 50 per cento. Una stima attendibile fa salire a 1000-1200 i partigiani operanti complessivamente in Valdossola all’inizio di settembre del ’44.
(2 – continua)
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