Tre album in una decina d’anni, tanto preziosi quanto schivi. E, prima, dopo e durante, una ricerca continua, un percorso intermediale tra significati e significanti, spiritualità e materia. Sono le cifre distintive dell’incarnazione cantautorale di Aldo Becca, solo una tra le sue molteplicità identità musicali. Un percorso artisticamente lontano dai radar mainstream, che la rivista Rumore ha recuperato inserendo Becca nei 100 dischi essenziali del cantautorato italiano, scegliendo, dalla sua discografia, l’album D’ora Stella, pubblicato solo in cassetta nel 2016. L’intervista.
Battiato, Battisti, Bennato. Ma anche Baglioni e Bindi. E Aldo Becca, nella stessa pagina dei 100 dischi essenziali del cantautorato italiano. Parola di Rumore. Fa paura? Anche perché tu di dischi nei hai fatti 3 e il tuo disco migliore, scommetto, lo devi ancora registrare, mentre gli altri, per cause naturali o di senilità artistica, quello che avevano da cantare l’hanno cantato.
Ringrazio e incasso, lì dentro c’è una minoranza di dischi per me fondamentali e più che una mappa per conoscere un luogo e muovercisi, sono segnali di stop. Non mi fa paura, mi fanno più paura quelli, tanto più è vasto l’universo di un autore che ti accompagna e influenza nel tempo. Sull’avere ancora o aver dato, Bennato ad esempio sarà sempre più giovane di me nei suoi dischi, se ascolti quelli, sono io il vecchio che vuole continuare. Non scommetto troppo sul futuro, ma la sensazione di non potere andare oltre che ho avuto finendo un terzo lavoro in cui ho messo tutto, sta passando, e mi permette di riprendere più serenamente a fare per far fallire etichette eroiche, senza dover mirare alto. So che accade a musicisti ed artisti in generale, è riposo della mente ma può diventare un blocco con le insidie del romperlo. Ascolto esclusi da quella lista, penso al grande e vecchio amico Emiliano Mazzoni, ed un paio di presenti, che sono coetanei splendidi. Penso a Toni Bruna ma anche a Giovanni Truppi, l’unico in grado di farmi sintonizzare per il tempo necessario su marones, Sanremo.
Ma torniamo indietro. Sul tuo biglietto da visita che ci hai scritto? Aldo Becca, cantautore? E cosa vuol dire essere (o fare) il cantautore ai tempi della dematerializzazione e spersonalizzazione della musica?
“Discoccupato”? Non ho idea di cosa significhi, adoro più il silenzio che tanti dischi di chi fa cantautorato e ho imparato a detestare gli accanimenti creativi. Rido invece agli anatemi più fantasiosi; alla spersonalizzazione sono abituato, è una droga degli emuli, a me è successo col tabacco, fanno male alla voce, in generale. La dematerializzazione invece è il frutto dell’ovvio processo tecnologico, ha ridotto e quasi nullificato il lavoro più piccolo di tutto un indotto, ha plasmato gusti e, strano a dirsi, non ancora gli si è risposto con misure politiche di tutela reale al diritto creativo.
Se dico che il tuo percorso di cantautore è un percorso di sottrazione, di rarefazione sonora. E insieme, di permanenza sonora, di latenza assoluta di sonorità pure e archetipe. E non necessariamente organiche, almeno nella grammatica di uno spartito. Suoni, ma anche piccoli rumori ambientali, note distillate e cristallizzate. Ed un canto che sembra nascondersi nelle pieghe sottili e impalpabili di queste sonorità adamantine e fragili. Se dico tutto questo, a te ti viene da ridere? O mi togli il saluto?
Nessuna delle due cose. Apprezzo e riconosco chi sa riconoscere. Così vengo descritto da chi mi apprezza, anche quando il gusto può divergere. L’etimologia del nome Aldo (vecchio, saggio, di nobili origini) deve avermi plasmato, più del nonno paterno sconosciuto che portava lo stesso nome.
Tu sei stato, sei, un discografico. Quanti album hai pubblicato con la tua etichetta? E per quanto tempo?
Con Palustre, assieme all’amico Michele Mazzani, diversi anni. Meno di dieci per circa una sessantina di album. Col ritmo iniziale di uno al mese circa, finché abbiamo retto.
Anche in questo caso, dire discografico non rende esattamente e completamente, la dimensione e il carattere della tua esperienza. Non stiamo parlando di CD, soltanto.
Erano oggetti in poche copie, molti finivano quasi subito all’estero o a collezionisti affezionati. Realizzavamo tutto attrezzandoci in casa e sperimentando moltissimo su tutti i supporti, grafici e audio, obsoleti e non. Ne conservo copie sempre gelosamente, sono stati ponti solidi per amicizie importanti e oggi alcuni prezzi triplicati su Discogs mi dicono che anche tolto questo, abbiamo lavorato in qualche direzione giusta.
La musica dunque è centrale, ma all’interno di un progetto polisemantico e plurisignificante. Dove concorrono poesia e narrazione, tra gli elementi espressivi, e media diversi, come grafica, tipografica, device, tra quelli significanti. E’ così?
Assolutamente e sto.
Facciamo un passo di lato. Parliamo di poesia? So che sei un lettore, appassionato di poesia. Cosa cerchi, e cosa trovi, nei poeti, che non trovi nei narratori in prosa?
La poesia lavora a pagina chiusa e libro riposto, è un sorso d’acqua alla fonte prima di affrontare il quotidiano; la forma più pura, libera, concentrata e potente di pensiero. Gli artifici propri della narrativa diventano smascheramenti. In questo senso io narro con sovrastrutture musicali, ma vorrei giungere all’essenza poetica e al silenzio. Togliere, ridurre, respirare. Lasciami citare Giovanni Fierro, Patrizia Dughero, Nazim Comunale, Rodolfo Zucco, Luisa Gastaldo, Giancarlo Sissa, Isabella Serra, Luigi Fontanella! La fondamentale QUDU libri con Simone Cuva. Quasi tutti amici, molti dei quali vivono in Friuli-Venezia-Giulia. Grazie alla loro iniziativa e alle loro pubblicazioni la poesia ha il ruolo sociale che dovrebbe sempre avere. Infine, la mia compagna viene dall’estero, scrive poesie nella sua lingua e in italiano. I pochi errori residuali al suo apprendimento non sono nulla in confronto alle barbarie quotidiane, conscie o meno, di tanti italiani sulla lingua comune e sulla propria ed altrui mente.
E sei tu stesso poeta. Poesia e canzoni, dove sta il confine?
Mi fido di te. Credo che il suono sia poesia e viceversa. Il timbro strumentale o animale nel ritmo dell’interazione col circostante. Basta un più per rompere tutto o pur conoscendo la musica non avvertire che il suono è più importante del suonare. Discografie intere di virtuosi strumentisti e proseliti, completamente da buttare.
Riassumendo, per provare ad avviarci ad una conclusione qualsiasi e temporanea. Una complessità multimediale che, nella tua produzione personale, si accompagna anche ad una ricerca di modelli espressivi archetipi. La primitive guitar, ad esempio. So che la stai esplorando proprio in questi giorni.
Adoro la musica cosiddetta primitiva ed è il momento migliore per approfondirla, l’approccio più bello alle caratteristiche acustiche e possibilità espressive della chitarra, quella più nuda. La scordi e riaccordi e ti avventuri, ci si eleva come accade con la musica orientale. Qui vicino abita un Maestro che è anche un prof. e tu conosci bene, Roberto Menabò. Quando leggerà questa intervista saprà che sono disposto a citarlo senza permesso. Ciao Roberto, vorrei un po’ del tuo tempo da Maestro, puoi?
Che musica ascolti, quando non suoni la tua?
Ultimamente riascolto Jack Rose, John Fahey, la bellissima Elizabeth Cotten. Poi Gwenifer Raymond, che è figlia del rock anni ’90 ma soprattutto di questi, che potenza. Di un sopracitato cantautore Fogo Nero, è un disco essenziale, poetico e bellissimo. Seguo tanti amici nelle loro evoluzioni e formazioni, Giulio di Ribéss, le varie formazioni di Thollem McDonas, di David Colohan, di Pietro Bonanno. Marino José Malagnino, L’inizio della neve, è un disco della vita. Quando se ne accorgerà qualcuno?
E che musica, invece, vorresti ascoltare e non trovi?
A volte quelle di archivio, non trascritte, non digitalizzate, non condivise, non popolari o non più. Del resto si trova tutto e dappertutto. Decisamente troppo. Vorrei ascoltare anche quella che con un po’ di fortuna potrebbe essere nel mio prossimo lavoro. Ecco, l’avrei trovata e sarei già a buon punto con l’auto sopportazione ed il missaggio.