L’attentato a Cristina Fernandez de Kirchner, avvenuto giovedì sera davanti al lussuoso edificio in cui vive, è ovviamente ripudiabile come ogni uso della violenza, ma l’aggressione (compiuta dal 35enne brasiliano Fernando Andres Sabag Montiel) che ha puntato la sua pistola, tremando visibilmente e senza sparare un colpo, mentre la ex presidente firmava libri ai suoi sostenitori, ha sì scatenato la condanna unanime, ma anche sollevato dei dubbi che, con il trascorrere del tempo, diventano sempre più consistenti.
In primo luogo, come i lettori già sanno, il 10 marzo scorso il suo ufficio al Senato venne preso a sassate: anche allora si parlò di un attentato, per poi scoprire che una troupe televisiva già stazionava nel luogo per fare riprese e dove in alcune scene mancano oggetti che invece appaiono in altre.
In merito all’attentato, invece, c’è da spiegarsi come mai il capo della sua scorta, al vedere la pistola puntata, si allontana invece di proteggere Cristina e anche perché, una volta consumato l’atto violento, la Kirchner continui tranquillamente a firmare autografi e ad abbracciare i suoi ammiratori, invece di essere immediatamente portata via dalle guardie del corpo.
Ma anche qui colpisce l’intervento immediato del presidente Fernandez, come è accaduto dalla richiesta della condanna fatta dai magistrati, che ha subito proclamato una giornata di lutto per l’accaduto, accusando l’opposizione di aver fomentato tutto, e per poter organizzare manifestazioni di protesta a favore della vittima.
Ma ora vediamo di fare un quadro completo degli avvenimenti che si sono succeduti dopo il fatidico martedì 23 agosto, quando, a un giorno esatto dalla richiesta della sua condanna a 12 anni di carcere, Cristina Kirchner ha iniziato a rispondere ai magistrati: inizialmente con un suo intervento dallo studio che occupa come vicepresidente al Congreso de la Nacion durato un’ora e mezza e trasmesso via YouTube. Si è vista una persona nervosa, irritata e soprattutto senza connessione alcuna con la realtà del documento che contiene la richiesta dei magistrati Diego Luciani e Sergio Mola. Si è assistito, in pratica, a uno sfogo che ha avuto come epicentro l’ex presidente Macri, accusato di vera e propria persecuzione nei suoi confronti. Ma la Kirchner ha subito alzato il fuoco, coinvolgendo l’intero Peronismo nel supposto attacco alla sua persona e drammatizzando la questione in maniera alquanto sopra le righe.
Ha mostrato una gran rabbia per aver dovuto ascoltare, nel corso dei 5 giorni di requisitoria, le accuse formulate contro di lei, quando invece è ampiamente risaputo come, nel corso del procedimento di accusa, l’imputato è obbligato ad assistervi di persona, proprio per rendersene edotto e quindi per sapere come difendersi. Invece un intervento del Tribunale Orale Federale numero 2 l’ha gentilmente dispensata dall’assistervi.
Insomma, l’imputata fa una fatica enorme nel capire che i processi giudiziari seguono regole ben precise, che devono essere rispettate, e che le eccezioni che continuamente chiede non possono essere accolte, perché tutti siamo uguali davanti alla legge, il che pare faccia arrabbiare parecchio la ex presidente.
Ma l’aspetto più eclatante, che costituisce la seconda parte di questo dramma metafisico, rientra nell’occupazione della zona di Buenos Aires dove sorge il lussuosissimo appartamento che la Kirchner possiede nell’altrettanto lussuoso quartiere di Recoleta: da più di sei giorni sono radunati, all’intersezione delle vie Juncal e Uruguay, non solo simpatizzanti del kirchnerismo, ma anche personaggi molto noti nel mondo sindacale per provocare disordini e aderenti del Movimento estremista kirchnerista “La Campora”: in definitiva, hanno occupato integralmente tutta la zona, provocando il blocco di qualsiasi attività, con violenze varie condite non solo di slogan contro i proprietari – definiti “oligarchi” (sic) – che nella zona vivono negli appartamenti attigui alla Kirchner, ma anche con il lancio di petardi e fuochi d’artificio lanciati vicino agli edifici , mettendo a rischio l’incolumità degli abitanti.
La questione è che la maggior parte delle persone presenti sono arrivate sul luogo accompagnate con scuolabus. Quindi si può tranquillamente affermare di come l’operazione sia stata organizzata ad arte e abbia ben poco di spontaneo.
In un qualsiasi Paese anche minimamente democratico un’occupazione totale del suolo pubblico così prolungata avrebbe generato l’intervento delle forze dell’ordine per liberare gli spazi nel più breve tempo possibile. Invece l’ordine di intervento della Gendarmeria è stato dato solamente sabato scorso dal Capo del Governo della città di Buenos Aires, Rodriguez Larreta (del partito di Macri) e si è assistito a una sorta di battaglia campale, nella quale ben 12 agenti sono rimasti feriti. Solo dopo un incontro con Cristina Kirchner, Larreta in persona è riuscito, attraverso un intervento dell’“imputata”, a ristabilire l’ordine.
È praticamente inspiegabile capire quest’ultima faccenda, per diversi motivi: in primo luogo, il ritardo gigantesco nell’intervenire, poi gli scontri con i manifestanti, infine l’operazione risolta nel modo appena descritto. La cosa è incredibile, perché in primo luogo l’uso della violenza ha di fatto messo in gravi difficoltà proprio l’autorità municipale e poi la soluzione concertata con chi questi disordini li ha provocati ha fornito una dimostrazione di evidente debolezza dell’opposizione all’attuale Governo.
Insomma, sembra proprio tutto costruito ad arte per portare acqua alla perseguitata, che parla decisamente (come i suoi sostenitori) dell’uso del “lawfare” nei suoi confronti, un classico del “progressismo” populista latinoamericano, che giustifica i vari processi per corruzione come pilotati dalle destre oligarchiche.
“È certo che a livello politico si ricorre alla denuncia di corruzione con il preciso intento di delegittimare l’avversario – sostiene la magistrata Goyeneche da noi interpellata – ma ciò accade in ambedue gli schieramenti politici. Quello che mi sembra, oltre che scorretto, decisamente insostenibile è qualificare le indagini che ottengono successo definendole alterate dal principio del ‘lawfare’, quando giustamente ne rappresentano la negazione”.
È la prova di quanto asserisce risiede nel fatto che, guarda caso, nel panorama del progressismo latinoamericano sia l’uruguaiano Pepe Mujica che la cilena Michelle Bachelet, ambedue presidenti delle rispettive nazioni per diversi mandati, non siano mai stati accusati di nulla e quindi non colpiti dall’arma del “lawfare”: forse perché ci troviamo di fronte a due esempi di politici onesti…
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