Caro direttore,
al temine dell’incontro “Nella diversità, per il bene comune”, tenutosi lo scorso 23 agosto al Meeting di Rimini con i leader di diversi partiti, il prof. Vittadini è stato inequivocabile nel suo invito conclusivo: “Noi dobbiamo impegnarci. È compito nostro […] Non: ‘se loro fanno, allora noi faremo’. Noi facciamo prima! Ci impegniamo a questa collaborazione, a questa partecipazione, a questa costruzione”. Quanto abbiamo vissuto nell’ultimo mese ci sprona a cogliere subito questo invito.
Lo scorso 20 luglio, durante il dibattimento che ha portato alla caduta del governo Draghi, gli interventi di numerosi senatori hanno svelato uno scenario desolante. Alla domanda su chi avesse dato almeno l’impressione di anteporre il bene del Paese e dei cittadini davanti a tornaconti personali, non abbiamo potuto far altro che constatare: pressoché nessuno. Poco dopo, i social sono stati inondati da commenti di intellettuali, giornalisti e professori, unanimi nel suggerire polemicamente: “se siete giovani, andatevene; se avete figli giovani, trovate il modo di fare andare via loro”.
Il disinteresse della classe politica nei confronti del bene del Paese ci ha amareggiati tanto quanto la prospettiva di lasciare il Paese vissuta come orizzonte ultimo e inevitabile, in senso letterale ed in senso lato, intesa come gettare la spugna e vivere egoisticamente pensando solo a portare a casa la pelle.
Con nostra sorpresa, lo sconforto iniziale ha presto lasciato spazio a due desideri, certo non sconosciuti, ma mai prima così cogenti: quello di un Paese migliore, dove ciascuno abbia la possibilità di vivere una vita buona, e quello di adoperarci per edificarlo. Questo ci ha stupiti, poiché collide con le alternative a nostra disposizione: la disillusione, la sfiducia, la rinuncia ad alcuno sforzo perché “cambiare le cose” è impossibile. Ci siamo chiesti, dunque, cosa ci stia aiutando a non abbandonarci a una posizione passiva, nonostante l’amarezza sperimentata e descritta.
Negli anni di università, prima, e sul lavoro, ora, stiamo imparando che il primo ambito di collaborazione, partecipazione e costruzione (per usare le parole di Vittadini) sono i nostri “luoghi” quotidiani, all’interno dei quali possiamo adoperarci perché diventino più accoglienti, giusti, funzionanti. Stiamo sperimentando la possibilità di agire senza lo scopo primo di prevalere sugli altri, ma guidati dal desiderio di fare il bene del posto in cui siamo, di prendercene cura.
Se anche questo livello di collaborazione ha la dignità di essere chiamato politica, allora ciascuno di noi ha la possibilità di non essere in balia di quelle che potrebbero apparire come lontane trame di palazzo: noi ci siamo e, in qualche modo, contiamo.
Il trasporto ed il coinvolgimento emersi il famoso 20 luglio non sono certo venuti meno e hanno iniziato a concretizzarsi in piccole azioni: intensificare dialogo con gli amici, redigere una piccola newsletter per chi tra loro ha chiesto aiuto a orientarsi nel mare magnum dell’informazione, contattare alcuni politici per esprimere necessità e auspici (ricevendo persino inaspettate risposte). L’opportunità di sostenere l’impegno di un amico candidato, poi, è l’inaspettato regalo degli ultimi giorni.
Non a tutti, magari nemmeno a noi, sarà chiesto nella vita di fare i politici. Per la prima volta, tuttavia, viviamo l’auspicio che questi desideri e questa tensione non si affievoliscano mai, per poter sempre più prenderci cura di ciò che abbiamo attorno partecipando alla costruzione di un Paese migliore.
Pietro De Ponti, Andrea Scalia
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