Liz Truss – neo-premier “tory” a Londra con più di un connotato in comune con Giorgia Meloni – ha esordito con uno spettacolare taglio delle tasse orientato al business. Una ricetta “thatcheriana” che i mercati non hanno preso benissimo, indebolendo sia la sterlina sia i “gilt”. La Gran Bretagna post-Brexit e post-Covid è sulle soglie della recessione e già in preda a un’inflazione a due cifre. I rischi di un’esplosione del debito pubblico (anche per finanziare i sussidi energetici alle famiglie promessi da Downing Street) non appaiono marginali. La scommessa economica di un gabinetto molto a destra negli annali britannici recenti appare comunque chiara e punta sulle imprese: non ultime – peraltro – le grandi istituzioni finanziarie della City, cui non a caso Truss ha regalato l’abolizione dei limiti ai compensi più alti.
Meloni – cui i risultati del voto di ieri difficilmente sembrano poter negare il primo incarico di formare il nuovo governo a Roma – avrà sulla carta lo stesso primo impegno di Truss: preparare – entro il 15 ottobre per la Ue, entro il 20 per il nuovo Parlamento – il budget 2023 della “Republic of Italy”. Ammesso che entro quella data un (oggi ipotetico) governo Meloni sia in carica, la legge di stabilità sarà il suo biglietto da visita presso l’usuale accoppiata “Europa e mercati”, ma anche presso l’Azienda-Paese: e quest’ultima potrebbe rivelarsi un’esaminatrice non meno severa e insidiosa degli analisti delle banche d’affari e dei tecnocrati di Bruxelles.
La netta affermazione di FdI all’interno della coalizione di centro-destra – a spese evidenti della Lega e pur nella tenuta di Forza Italia – sembra creare più che sciogliere nodi sul terreno politico-economico. La destra sociale – portata da Meloni a un successo storico nell’Italia democratica – ha una tradizione statalista, nettamente diversa da quella che la Lega ha mantenuto viva a lungo come “forza delle partite Iva” e che la Forza Italia berlusconiana ha interpretato a fasi alterne in chiave di liberismo classico. Molti voti sembrano tuttavia essere stati travasati a FdI proprio da segmenti d’impresa in crisi di fiducia verso le forze del centrodestra storico; da imprese chiaramente spaventate, “abbandonate” soprattutto sul fronte della paurosa inflazione energetica.
È un’Azienda-Paese che attende ora segnali e misure concrete da un politico sperimentato in Parlamento, ma privo di esperienza di premiership e finora all’opposizione del governo guidato da Mario Draghi e quindi distante dagli establishment tecnocratici e finanziari. Ed è un candidato premier – Meloni – che potrebbe soffrire da subito un’instabilità tendenziale a causa di alleati di coalizione troppo puniti negli elettorati di riferimento della business community. Questi ultimi hanno certamente puntati alcune “fiches” sul polo Azione-Iv: e non sarebbe sorprendente vedere Carlo Calenda e Matteo Renzi allargare ora le basi di una maggioranza parlamentare votata alla resistenza attiva contro la stagflazione. Il primo “oggetto politico-economico” (sul tavolo di entrambe le parti sociali) si profila comunque il ridimensionamento – se non l’abolizione – del reddito di cittadinanza: partita peraltro di prima difficoltà, dopo la performance relativamente positiva del “nuovo M5s” di Giuseppe Conte (che il premier lo ha già fatto due volte e conosce gli ambienti internazionali più di Meloni).
Gli esiti tendenziali del voto non sembrano orientati a un re-impegno diretto di Mario Draghi (dato invece per possibile, da alcuni, in caso di nuovo “governo di salute pubblica” aperto al Pd). Tuttavia proprio un esecutivo pienamente politico guidato da Meloni sembra esposto a rischi se non protetto almeno in parte dal premier uscente che – anzitutto – ha impostato il Recovery Plan Ue e quindi redatto il Pnrr italiano. La partita decisiva – in Europa – si annuncia la riscrittura dei parametri di Maastricht quindi il ritorno dell’emergenza-debito pubblico: a maggior ragione in fase di tassi in rapida ricrescita e di Pil stagnante.
È su questo sfondo che stanno prendendo forza due scenari, non necessariamente alternativi. Il primo prevede una relativamente veloce impostazione di una riforma costituzionale in senso semipresidezialista: il semplice annuncio segnalerebbe come punti di arrivo le dimissioni anticipate di Sergio Mattarella (sulle orme di Giorgio Napolitano) e l’approdo probabile di Draghi in un Quirinale con più poteri. Una seconda direttrice vedrebbe invece l’ex presidente della Bce indirizzato verso un nuovo incarico internazionale: come quello – oggi più che mai strategico – di segretario generale della Nato; oppure quello di primo “ministro della finanze Ue”, nell’ambito di una nuova governance economico-finanziaria a Bruxelles.
“Politica delle imprese” e futuro di Draghi: i primi test, per Meloni, sembrano già pronti.
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