“La scuola siamo noi” assicurano al Collettivo. Non fatichiamo a crederci. Basta guardare le condizioni in cui è ridotto il sistema educativo italiano, da anni sprofondato in una crisi d’identità che ha il sapore della rinuncia all’educazione tout court, e confrontarle con i profili di quanti, studenti che dovrebbero esserne gli ospiti mentre in realtà ne sembrano i padroni, ricordano la “lotta dura senza paura” dei loro padri e nonni. Il quadro che ne risulta è speculare. Minorenni quasi tutti, che di quel sistema rappresentano l’ingranaggio arrugginito, sempre pronti a tornare sulle barricate e a saltare ore di lezione perché, hanno riferito ieri ai mass media, “queste regole non ci vanno bene”.
Non sorprende, allora, che nel giorno stesso in cui il centro-destra ha vinto il confronto elettorale, il Liceo Manzoni di Milano (ma temiamo che il cattivo esempio venga presto esteso, come spesso accade in questi casi, ad altri istituti superiori e ad altre città) ha deciso una occupazione di due giorni, ieri e oggi. Con quale pretesa di rappresentatività non è chiaro, come non lo è mai stato in passate occasioni analoghe, così come fumose, sfuggenti e fortemente ideologiche appaiono le motivazioni così espresse dai protagonisti: “Abbiamo occupato la nostra scuola per parlare e confrontarci sulla situazione in cui versano le nostre vite: crisi e disastri climatici sono ormai all’ordine del giorno, provano lentamente ad abituarci a un lavoro precario, sfruttato e mortale, e come se non bastasse ci prepariamo ad entrare in una fase politica pericolosa e repressiva, visti gli ultimi risultati elettorali”.
Sintassi a parte, su cui stendiamo il consueto pietoso velo, che vi sia necessità di occupare una scuola, impedendo a chi lo volesse di partecipare alle lezioni, è di per sé una contraddizione se si dice di volerlo fare “per parlare”, ma ancora di più se ci si vuol “confrontare”. In questo caso, infatti, il confronto può esserci solo se è possibile un contraddittorio, ciò che viene negato in modo implicito dal fatto di giudicare come “pericolosa e repressiva” la fase politica uscita dalle urne.
Siamo, insomma, alle solite. Un film già visto che, iniziato nel lontano 1968, ha portato poco di buono alla scuola e alla società italiana nel suo complesso, tradendo in fretta le scene iniziali in cui le rivendicazioni di un cambiamento di forma e di sostanza potevano avere un senso e una prospettiva nella scuola del nozionismo ad oltranza. Da allora in poi i nostri istituti scolastici ne hanno viste di tutti i colori, tanto nelle sfumature del nero quanto e ancor più in quelle del rosso, ma sempre ribaltando il concetto ontologico di democrazia. Per chi occupa (una volta si scriveva con le k, okkupa: speriamo non torni questa pessima abitudine), la democrazia funziona solo se coincide col proprio pensiero politico: in altre parole, si tratta di una democrazia a senso unico in cui “o sei con me o sei contro di me” e le aule fanno da palcoscenico all’ultimo baluardo sessantottino della Sinistra di lotta e di potere.
Tutto ciò non in un Paese in dittatura, ma libero (“Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no!” scrisse Guareschi in una nota vignetta datata 1948, ma attualissima) di esprimere il proprio voto (chiedere lumi in proposito ai russi ed ucraini di questi giorni). E col libero voto il popolo italiano si è espresso a larga maggioranza per i partiti del centro-destra, così come non aveva potuto fare nell’ultimo decennio in cui i governi sono stati a trazione centro-sinistra senza passare dal volere popolare. Ma di questo i ragazzi del Manzoni (tutti, la maggioranza, la minoranza? non si sa) ne fanno un baffo. In fondo, dopo aver gridato “basta Dad e ritorno alla scuola in presenza”, due giorni (per ora) senza lezioni vanno benissimo. Assale un ultimo dubbio: a cosa serve l’ora settimanale di educazione alla cittadinanza, per altro votata due anni or sono all’unanimità in parlamento, se i risultati sono quelli dell’occupazione senza se e senza ma? Appunto, mah…
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