Il primo biennio che segue l’inizio dei ‘70 vede la messa a punto dei tratti distintivi dello strano e indecifrabile sodalizio artistico battezzato Genesis, tra le più inebrianti avventure musicali partorite dall’Inghilterra post Beatles. Lo scenario è l’amicizia competitiva ma non per questo meno forte tra i talenti speculari del tastierista Tony Banks e del cantante Peter Gabriel, che incrociano le proprie strade sul finire dei ‘60 con l’altra brulicante realtà formatasi nella comune scuola superiore del sud inglese della Charterhouse.
L’ensemble formato dai due con Mike Rutherford e Anthony Phillips si sfila dalle strettoie dell’iter educativo, per seguire le scelte scomode dei nuovi percorsi musicali a cavallo tra le due decadi alla ricerca di un’ipotesi sonora affrancata dal culto virtuosistico degli altri nomi di punta dell’art rock. Tecnica strumentale sì ma finalizzata al rintraccio di un preciso codice musicale, un misterioso patto di sangue creativo attraverso menti e braccia dei protagonisti.
Foxtrot (pubblicato il 6 ottobre 1972) – quarto album in studio della band – raduna le proprie componenti facendo leva sul dialogo tra due differenti timbri elettrici, ben presenti ma meno calibrati nel precedente Nursery Cryme, combattuto tra la prevalente indole pastorale dell’esordio e le prime potenti escalation sonore della band, con l’ingresso di un altro pezzo da novanta come Steve Hackett alle chitarre.
Il disco (con l’emblematica donna con la testa di volpe e il restante immaginario strabordante di Paul Whitehead sulla cover-art) è un amalgama ideale di quelle anime. Le visioni sonore ancora orfane dei synth analogici, vengono emancipate in maniera ideale da un mix sfarzoso e mozzafiato dove risplende l’organo, mentre il piano elettrico distorto in veste di chitarra solista aggiunta (che duettava già nei momenti cruciali di Nursery Cryme con la prima chitarra solista), funge qui da estensore di circoscritte e dosate suggestioni musicali all’interno dell’epica umano/metafisica di Supper’s Ready.
E a proposito di epica, le fondamenta del disco nascono dal parto in tempo reale del testo di quella che con Watcher of The Skies, diverrà la celebre ed elegiaca apertura dell’album. Tony Banks e Mike Rutherford buttano giù le liriche di uno dei brani simbolo della musica del gruppo, durante il primo tour italiano a supporto di “Nursery Cryme”, a margine dello show di Reggio Emilia del 12 aprile 1972 dove la musica prende forma durante il soundcheck. “Il testo lo scrivemmo qualche giorno dopo a Napoli, io e Mike” ricorda Banks: “Eravamo seduti sul tetto di un edificio, c’era tanto sole e tanto caldo e, guardando davanti a noi, in un grande spazio di case e campi, notammo che in giro non c’era nessuno, come se tutta la popolazione avesse abbandonato il pianeta. E’ l’ispirazione che ci è servita per Watcher of The Skies … un essere alieno che arriva sul nostro pianeta e lo trova deserto. Insomma ci eravamo addentrati nella fantascienza: non a caso io impazzisco per libri come Childood’s End di Arthur Clarke”.
Una partitura di Mellotron e Hammond che incrocia strati di armonie ora diafane ora maestose, invoca ritmiche irregolari che alternano potenza e morbidezza e insieme all’organo appoggiano un canto di rara potenza e espressività. Watcher of The Skies è già paradigma e manifesto di una realtà musicale che procede spedita sulla strada di un affiatamento che la porterà nel tempo, fase dopo fase e formazione dopo formazione, a imporsi come una delle migliori live band di sempre. “… Salivamo sul palco” – ricorda Banks – “e, tra ghiaccio secco e luci ultraviolette, che allora non erano ancora un cliché, attaccavamo Watcher of The Skies: allora tutti capivano di essere a un concerto dei Genesis …”.
La qualità del suono (Island Studios Londra) e della produzione (John Burns che orienta e dirige insieme al gruppo le scelte di David Hitchcock), rappresenta un balzo di livello dall’inizio della carriera con una coesione ideale di fasi strumentali e vocali, che ancora oggi restano tra le migliori e meglio invecchiate emissioni di pristino e inconfondibile suono anni ‘70.
Il resto dell’album – al pari dell’inizio – è il primo di una lunga serie dove cervello, invenzioni e regia sonora di Tony Banks innescano la meraviglia di geometrie fuori da ogni regola. Estro e spunti tra intensità vocale, recita e gestualità di Peter Gabriel convogliano dal canto loro una musicalità che brilla di luce propria, grazie a un manipolo di talenti unici nel dare sangue al proprio strumento, su tutto i fondamenti di un Phil Collins impareggiabile per sequela e gamma di soluzione ritmiche.
Se l’ammaliante pianoforte a coda di Banks allestisce l’arcaica e luccicante melanconia di una Time Table in cui la voce di Gabriel padroneggia sfumature tra remoto e contemporaneo, ecco che la band esplode in una Get’Em Out By Friday che, mettendo a tema in maniera bizzarra e caustica il tema-casa per tutti, sfoggia una scoppiettante molteplicità di contributi da parte di ciascuno con il basso di Rutherford a svettare sulla notevole qualità dell’insieme.
Altrettanto fa un Steve Hackett che sale in cattedra in Can Utility and The Coastliners, alternando impressioni acustiche a stilettate elettriche in triangolazione con le febbrili ascensioni da cattedrale di Banks e i nervosi flussi di frequenza del canto di Gabriel. E ancora il gustoso bozzetto del chitarrista in Horizons, funge da precedente storico di una serie di emulsioni solistiche brevi e memorabili da parte dei singoli, che troveranno il loro apice nel successore Selling England By The Pound.
In fondo al percorso di un album che non conosce cedimenti qualitativi, i lunghi titoli di coda di Supper’s Ready, brano più esteso della carriera e tra i momenti più alti della visione artistica della band (presente in concerto in vari formati fino al 1987). Una sublimazione d’intenti significativa sotto vari piani concettuali e artistici.
“… Supper’s Ready nacque in un modo un po’ fortuito” confessa Banks. “Fu registrata nel giro di due settimane, proprio mentre arrangiavamo gli altri brani, e fu come mettere insieme tanti pezzetti che già avevamo.” … “mi venne l’idea di far seguire ad un inciso romantico come How Dare I So Beautiful un che di più leggero. Perché non attaccare subito in coda Willow Farm, così al volo, bang? Quest’ultima era una breve canzone che Peter aveva già pronta, completa di testi. Così dopo aver aggiunto Willow Farm tutto il resto sgorgò fuori di botto”.
In ventitré minuti si rinnova nelle liriche di Gabriel l’eterno conflitto bene/male in un rincorrersi di intimità acustiche, beffarde movenze di sapore vittoriano e trame in bilico tra rock colto e casistica sinfonica, con il culmine nell’interludio strumentale di Apocalypse in 9/8. Tra le rullate in antitesi ritmica di Collins e le scansioni di Rutherford, l’Hammond di Banks insegue deliri tra Bach e danza esoterica, decretando di fatto la nascita della formazione a tre (Banks-Collins-Rutherford) nel pieno della vita dello storico quintetto, e questo ben sei anni prima dell’ufficialità del passaggio di consegne.
“ … Apocalypse in 9/8” – ricorda Rutherford – “fu composta alla scuola di danza Una Billings, vicino a Shepherd’s Bush, dove andavamo a provare. Peter non c’era, così Phil, Tony e io iniziammo a lavorare alla parte strumentale … Fu l’inizio di quella che sarebbe diventata la formazione a tre …”. “Apocalypse in 9/8 – aggiunge Banks – era il pezzo strumentale migliore che avessimo mai composto … Mike e Phil crearono un riff in 9/8, ma io non volevo essere vincolato dalla misura, quindi lo presi come un 4/4 e suonai a contrasto con il loro riff. Era come se si aprisse il cielo e comparissero gli angeli …”.
Con Foxtrot si assiste al nuovo inizio di un’avventura unica dove i desideri viaggiano uniti dalla grazia di condividere un’ideale armonia tra abilità, imperfezioni e silenzi. Generando quell’inesauribile senso di attesa che si estenderà negli anni a venire.