Sembra non esaurirsi mai l’attrazione che Le avventure di Pinocchio suscita tra produttori e registi: a tre anni di distanza dalla versione di Matteo Garrone, Disney realizza per il suo servizio streaming Disney+ un nuovo adattamento a due mesi di distanza da quello di Netflix che recherà la firma di Guillermo Del Toro. Questo invece porta la firma di Robert Zemeckis, pioniere nell’uso delle tecnologie animate da applicare agli attori, che parte dal classico animato più che dal romanzo di Collodi per aggiornarlo al presente.
Assieme a Chris Weitz, Zemeckis riscrive la storia del burattino, creato dal falegname Geppetto (Tom Hanks), che cerca di diventare un bimbo vero, ma finisce coinvolto in disavventure di ogni tipo da persone molto poco affidabili come Il gatto e La volpe, Lucignolo, Mangiafuoco e via raccontando. Il povero padre comincerà così la pericolosa ricerca del figlio.
Al di là dell’adeguamento di un immaginario fortissimo e riconoscibile, un vero e proprio marchio (basti vedere il design di Pinocchio o del gatto Figaro), alle nuove animazioni digitali, il lavoro di Zemeckis e soci è nello spirito del racconto: se il film del ’40 è assunto come un testo sacro, questo nuovo Pinocchio mette al bando il moralismo familiare di Collodi, non ritrae il burattino come un discolo pronto a disobbedire in nome del principio del piacere, scontrandosi quindi col senso di colpa verso il padre, ma come un ragazzino animato da sana curiosità e travolto da eventi, disavventure, persone poco raccomandabili. Più che su questioni di lana caprina come il colore della pelle della Fatina (Cynthia Erivo) o di alcuni attori in piccolissimi ruoli o la sostituzione della balena (o del pescecane originale) con un immaginifico mostro marino, sarebbe interessante focalizzarsi sullo spirito educativo che dal film viene fuori, in cui Pinocchio non lotta per diventare bambino e quindi farsi accettare dal padre, ma cerca di tornare dal genitore che lo accetta così com’è: il finale, infatti, vede i due protagonisti tornare a casa senza che il burattino sia divenuto umano, perché la sua umanità è nelle azioni, non nelle sembianze, e le apparenze non sono lo specchio di ciò che abbiamo nel cuore.
A questa relativa modernità di approccio, Zemeckis fa combaciare il lussureggiante apparato descrittivo e fotografico (a cura di Don Burgess) e il suo gusto per il dettaglio, ma un po’ come il burattino protagonista anche il film resta di legno, ingessato nel suo procedere, privo di scosse, tensioni, conflitti, elementi di spettacolo, impoverito da un digitale sorprendentemente pessimo (la sequenza della fuga dal mostro marino sembra un video di prova non finalizzato) che rende vana l’interazione tra attori e animazione.
E allora, se di legno deve rimanere, il film migliora quando è un “burattino”, cioè quando rifiuta l’umano e può liberare il suo proprio ritmo, nel balletto dei burattini, nella sinfonia di orologi, nella visita al paese dei Balocchi. Solo che questa dimensione Pinocchio la accetta di rado e non è abbastanza risolto per arrivare altrove, per cui il burattino resta senza fili, ma anche senza gambe. Soprattutto, con poco cuore.
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