Si può parlare di educazione a scuola? La domanda sembrerebbe retorica. Tant’è vero che molti genitori delegano completamente alla scuola il ruolo educativo, ritenendosene esentati. Ma non è così.
Un episodio inerente alla nascita della scuola che ho diretto per molti anni appare particolarmente significativo. Accoglievamo bambini residenti in tutta la provincia di Reggio Emilia, in un convitto con pernottamento. Si trattava di bambini provenienti da situazioni familiari di forte disagio. Frequentavano la scuola statale del vicino capoluogo di Comune. Venimmo chiamati a rispondere del fatto che i nostri ragazzi erano piuttosto turbolenti in classe. Rispondemmo che sarebbe stato possibile capirne la causa aprendo una relazione con loro, interessandosi alla loro storia, facendosi prossimi al loro disagio, camminando insieme a loro in un percorso di crescita e di riabilitazione. Un insegnante parlò a nome di tutti dicendo espressamente “Noi abbiamo studiato chi lettere, chi matematica, chi inglese e ci limitiamo ad insegnare le nostre materie. Se volete fare i missionari, aprite voi una scuola”.
Questo episodio è emblematico non solo perché nel settembre successivo aprimmo effettivamente la nostra scuola, ma soprattutto perché mise in evidenza la frattura che esiste nel nostro sistema scolastico tra istruzione ed educazione. Significativa, tra l’altro, l’identificazione colta dell’insegnante citato tra “educazione” e “missione”.
Quali sono le condizioni che fanno di una scuola un ambiente educativo? Credo sia fondamentale la disposizione del cuore degli insegnanti, nella consapevolezza che sono chiamati non a un mestiere, ma a una missione. Il cuore deve essere aperto alla relazione con i propri alunni.
Si è parlato molto di relazione in tempi di Covid. Lo si è fatto superficialmente, come se la “relazione” fosse un’esperienza scontata. Una relazione implica azioni, imprevisti, contraddizioni, riprese, fedeltà nel rapporto. La relazione è faticosa e richiede spirito di sacrificio. È una missione. Cosa pienamente avvertita dall’insegnante citato, benché respinta.
Ma l’educazione non è un fatto personale: “per educare un bambino serve un intero villaggio” dice giustamente papa Francesco, citando un proverbio africano. Anche nell’educazione familiare non è sufficiente che sia un solo genitore ad educare, occorre il contributo di entrambe, perché l’educazione è un fatto di comunità. L’assenza di uno dei due genitori determina una crescita malferma, insicura del bambino. Nella scuola succede la stessa cosa. Un solo insegnante disposto ed educare all’interno di un consiglio di classe è un valoroso cavaliere che si batte contro i mulini a vento. Deve essere l’intero consiglio di classe nella sua dimensione comunitaria ad educare. Ancor più: dovrebbe essere la scuola intera ad educare. Ma educare rimane un termine generico e infruttuoso se non si precisa l’obiettivo dell’educazione. Che senso ha educare? A cosa vogliamo educare?
C’è un pensiero molto vario sullo scopo dell’educare, anche se sostanzialmente converge sullo sviluppo delle attitudini del bambino e sull’acquisizione degli strumenti di cui ha bisogno nel processo di adeguamento al contesto in cui verrà a trovarsi e di cui egli stesso sarà artefice. L’educazione consisterebbe sostanzialmente in un allenamento delle facoltà cognitive per la propria soddisfazione personale, per partecipare attivamente alla società, per affrontare con successo un mondo del lavoro in continua evoluzione.
Ma così rimane fuori l’uomo. Paradossalmente, mentre si concepisce l’educazione come strumento finalizzato all’acquisizione delle competenze che esalterebbero la realizzazione dell’uomo, non ci si occupa della natura dell’io, la si dà per scontata. Ma è questo il punto cruciale da cui partire nel percorso educativo.
E-ducere, cioè trarre fuori, implica la consapevolezza che c’è in ciascuno qualcosa di grande e bello che deve manifestarsi, e che l’educazione ha il compito di spalancare. Per don Giussani l’uomo è destinato, per un compimento di sé, all’orizzonte totale. “Perciò, potenzialmente almeno, l’educazione deve mirare a introdurre l’uomo nella realtà totale. Ma questa realtà totale, o questa realtà con cui il soggetto si impatta, con che occhi, vale a dire con che criteri, vale a dire con che “ipotesi di significato” sarà affrontata? Non ci fosse un’ipotesi di significato, non ci fosse un precedente punto di vista, quanto minor valore avrebbe tutto ciò!”. Don Giussani allarga l’orizzonte educativo richiamando un’ipotesi che precede il processo educativo e che gli conferisce significato: la tradizione. “Tradizione dato originario, con tutta la struttura di valori e di significati in cui il ragazzo è nato”. Tradizione: “motore di crescita”, come qualcuno ha felicemente chiosato.
Il bambino è una persona; una persona non è una scatola vuota da riempire. Un bambino nasce con un patrimonio di affetti, di valori, di vissuto dalle generazioni che l’hanno preceduto. È come il blocco di partenza da cui scattare per spalancarsi alla vita. Se viene persa o trascurata questa dote, di cui fa parte essenziale la religiosità, il bambino cade preda della mentalità corrente, che può sì sviluppare le competenze chiave, ma come dato esterno, rendendo la persona mutevole, manipolabile, sostanzialmente preda del potere di turno.
La ricchezza della tradizione non è imposta: viene trasmessa consapevolmente dall’educatore, ma non limita la libertà dell’educando. L’impatto con la realtà lo costringerà a una verifica. Accettare o respingere quanto ricevuto sarà appannaggio della sua libertà. Ecco un altro elemento fondamentale dell’azione educativa: la libertà. Non si educa se non rispettando la libertà della persona sia dell’educando che dell’educatore. Ed è la tradizione che la attiva. L’imposizione acritica di contenuti e di atteggiamenti (politicamente corretti), al contrario, la deprime.
Ultimo ma non trascurabile elemento del processo educativo è la continuità educativa tra scuola e famiglia. Se l’ipotesi di significato proposta dalla scuola (ammesso che ci sia) non è conforme o addirittura contrasta con quello della famiglia, come poter educare? Ipotesi di significato, disposizione del cuore, relazione, fatto di comunità, consapevolezza e rispetto della persona, libertà, continuità con la famiglia: queste le caratteristiche, appena abbozzate, dell’azione educativa nella scuola.
Ritorniamo ora alla domanda iniziale: è in grado il nostro sistema scolastico di educare, cioè di costituire in ogni scuola comunità educanti coese, capaci di spalancare gli alunni alla realtà, proponendo per essa un’ipotesi di significato? Favorisce il nostro sistema scolastico il costituirsi di comunità di pratica nelle quali i docenti hanno quella disponibilità di cuore capace di intercettare il vissuto dei loro alunni e di interagire tra loro per favorirne la crescita umana e culturale? La famiglia ha la possibilità di scegliere, tra una varietà di orizzonti educativi, quello più conforme al proprio?
“Difficilmente la scuola potrà essere un ambiente formativo e una comunità di apprendimento fino a quando non saranno molto ampliati per docenti, genitori e studenti gli spazi reali di esercizio della libertà e della responsabilità, così che essi aumentino in proporzione poi geometrica non solo nella scuola ma anche in famiglia e nella società… Docenti e dirigenti, per esempio, sono assegnati alle scuole. E una volta assegnati alle scuole hanno ulteriormente assegnati compiti predeterminati, dall’orario settimanale al fatto di dover insegnare soltanto in una sezione di un certo ordine e grado di scuola, e sulla base di contenuti da svolgere in tempi predeterminati. La loro azione dominante non può che essere dunque che quella dell’adattamento. Il miglior docente è chi meglio si adatta ai vincoli dati. Non potranno, a questo punto, che ‘insegnare’, se imitati, a loro volta adattamento” (Giuseppe Bertagna, Educare istruendo: ambiente formativo e comunità di apprendimento, Disal 2007). Il nostro sistema scolastico, centralistico e piramidale, massificato, fatto di adempimenti burocratici, di prescrizioni, di imposizioni, non può generare ambienti effettivamente educativi. Non per niente assistiamo a una diffusione imponente dell’istruzione parentale.
Eppure esistono esperienze che si distinguono per un progetto educativo rispondente alle caratteristiche affermate. Si tratta di realtà di dimensioni circoscritte, numericamente contenute, capaci di esprimere un’identità propria, pur mantenendosi all’interno del sistema nazionale di istruzione. Mi riferisco in particolare alla scuola paritaria, per sua natura di iniziativa sociale, espressione, per la maggior parte, di un particolare afflato educativo, ma anche a realtà di gestione pubblica legate al territorio.
Perché il nostro sistema scolastico nella sua interezza possa assumere una dimensione educativa dovrebbe rinunciare a concentrazioni massificanti di alunni e di insegnanti, all’imposizione centralistica e paternalistica di procedure e metodologie, dovrebbe conferire alle scuole piena autonomia gestionale e didattica, attuare una vera parità anche in termini economici, valorizzare e promuovere le esperienze capaci di esprimere identità culturale, vitalità propositiva, creatività didattica, affabilità relazionale.
Ma dubito che il Leviatano scolastico nazionale possa fare passi in questa direzione, a meno di una rivoluzione culturale che ne scuota le fondamenta.
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