I recenti articoli di Paolo Torricella affrontano una questione che è stata oggetto di un recente seminario su “La sinistra dopo il 25 settembre” promosso da Antonio Cantaro per “FuoriCollana”. Vorrei condividere con i lettori del Sussidiario l’intervento che vi ho pronunciato.
Oltre che sulla postura interna ed internazionale del prossimo governo della destra, i mass-media e l’opinione pubblica in questi giorni si interrogano su quel che avverrà nel Pd dopo un tonfo che va ben oltre il risultato elettorale e che la sua stessa dirigenza riconosce tale da richiedere un congresso addirittura di rifondazione.
Il fatto è che da quel che avverrà nel Pd dipendono la postura e la forza che l’opposizione al governo delle destre riuscirà a mostrare in occasione delle tensioni sociali e politiche che – come molto fa immaginare – si svilupperanno a partire già dai prossimi mesi. E soprattutto dipendono le fattezze che la sinistra assumerà nel nostro Paese e i destini che nei prossimi anni la attendono.
L’imputato del processo pubblico, che così si è aperto, è il povero Letta, accusato di avere abbandonato il radicamento sociale del Pd ed aver rinunciato alla sua funzione di rappresentare la sinistra. Che Letta abbia sbagliato i conti non c’è dubbio. Ma non c’è neanche dubbio che di quest’errore egli è solo l’ultimo terminale.
Non solo quel che Letta ha fatto aveva ricevuto il consenso unanime di tutto l’attuale gruppo dirigente, ma seguiva una linea che al Pd veniva pesantemente sollecitata dall’“esterno”, e non da ora.
È da anni che i grandi giornali e le principali rete televisive, che danno voce al sentiment delle classi dirigenti di questo Paese, perseguono l’obiettivo di fare del Pd un partito di centro che guarda alle élites e ne incorpora i programmi neoliberali: prima avevamo affidato questo compito a Renzi e poi hanno tramesso le stesse consegne a Letta con il mandato di far da supporto a Draghi, che per esse – da sempre – costituiva la vera briscola di questo grande gioco sugli assetti politici dell’Italia.
Non è andata neanche questa volta. E non è andata perché il progetto di queste classi dirigenti si basava su di un vistoso deficit di analisi sociale e politica. Semplicemente, pretendeva di navigare in un mare di cui non conosceva i fondali: si dice che gli dei confondano quelli che vogliono perdere.
L’establishment e gran parte dei suoi maître à penser hanno liquidato quel che avveniva da oltre un decennio sulla scena politica di questo paese (ma non solo) con l’epiteto, spesso sprezzante, di populismo e ne hanno pronosticato una rapida dissolvenza sugli altari della tecnica, della competenza e del progresso. Non avevano capito, e continuano a non capire, che il cosiddetto populismo era, ed è, il portato delle trasformazioni profonde che le economie e le società occidentali avevano subito a far data dagli ultimi decenni del secolo scorso.
Robotizzazione e informatizzazione dell’economia avevano profondamente modificato la stessa struttura sociale di questo Paese, mutando l’antica piramide in una clessidra, con un’ampolla superiore costituita dalle élites e dalle loro affollate appendici e un’ampolla sottostante ove si addensa tutto il resto della società. E tra queste due ampolle si è progressivamente interrotta ogni comunicazione: l’ascensore sociale si è fermato e tra questi due pezzi di società si sono ingigantite le distanze.
Nell’ampolla di sotto si sono addensati senza più speranza gli ormai impoveriti ceti medi di un tempo e un lavoro scomposto, disarmato e svalutato, al quale precarizzazione e sotto-remunerazione hanno tolto la dimensione del futuro. Ma con questo di più, che quel che così si è ritrovato in quest’ampolla è stato sradicato e riconfigurato socialmente e politicamente, privandolo delle sue tradizionali aggregazioni (ovvero crisi di sindacati, associazioni, partiti di massa, ecc.) e coinvolgendolo in un individualismo sempre più spinto (l’idolatria del consumo e il miraggio del successo al posto della “futura umanità”): insomma la “società liquida”, come la chiama Z. Bauman.
Il populismo non era, e non è, altro che la forma che assume la protesta di questo mondo dell’ampolla di sotto nella “società liquida” e cioè in un tempo nel quale le ideologie e le aggregazioni politiche, sindacali, ecc. si sono venute progressivamente dissolvendo e con esse sono morte le loro antiche fedeltà. Il populismo, perciò, è la forma entro la quale provano a riconoscersi quanti non si sentono più considerati dalle istituzioni che ne dovrebbero avere cura e da chi in esse avrebbe dovuto rappresentarli.
Su questo si è infranto il progetto dell’establishment di coinvolgere il Pd nel nuovismo delle élites e di controllare con esso un pezzo di popolo. Questo progetto integrava un disegno di dominio indiretto del mondo dell’ampolla di sotto: l’impossessamento dell’istanza politica che avrebbe dovuto rappresentarlo. Ma di questo progetto è andata in porto solo la prima parte: il Pd, nel nome del “nuovo che avanza”, si è intestato il programma neoliberista delle élites, ma il popolo non lo ha seguito. Ed è così accaduto che il Pd si sia mutato nel partito dei centri storici e che il popolo si è messo alla ricerca di chi potesse, infine, rappresentarlo. O si è astenuto.
Questo è accaduto e partendo da questo si deve cominciare a ragionare.
Dopo un primo disorientamento, la gran parte degli opinionisti che contano si è affrettata a suggerire al Pd una strategia centrata su tre punti: alleanza con il cosiddetto terzo polo, lotta senza quartiere al M5s e recupero dell’elettorato popolare, che in quest’altro partito si è in buona parte ritrovato, attraverso una comunicazione più incisiva e qualche rettifica programmatica.
Questa via, che non è altro che l’aggiornamento della vecchia strategia dell’establishment, non sembra proprio molto plausibile. Non ha funzionato prima e non si vede perché mai dovrebbe funzionare ora: un aggiornamento “populista” del linguaggio e qualche concessione alle urgenze popolari probabilmente irriteranno Renzi e Calenda e sicuramente non serviranno a recuperare la credibilità perduta, specie in presenza di chi, il M5s, quel linguaggio può parlare senza censure e verso i bisogni del popolo ha già mostrato ben altra sensibilità. Ma soprattutto è questo che fanno dire i mutamenti di questi ultimi decenni: in una società spaccata lo spirito di chi si situa nell’ampolla di sotto guarda alla ridistribuzione, relativa per quanto si voglia, del potere e della ricchezza, e cioè proprio a quello che il neoliberismo di Renzi e Calenda non vogliono e che l’establishment con i suoi progetti, alla fine, intende proprio scongiurare.
Questa strategia, declinata con minore rigidità, sembra trovare molta, anche silenziosa, udienza presso buona parte dell’attuale dirigenza del Pd, che vi intravede la possibilità di continuare a godere di “buona stampa” e di perseverare nelle consuete politiche al riparo dello schermo dell’opposizione, che non la espone più direttamente. Ma incontra una ferma opposizione soprattutto fra l’intellettualità di sinistra, che, da dentro e da fuori questo partito, esercita da tempo molteplici e serrate critiche verso le sue pratiche.
La strategia, che da quest’altro lato viene sollecitata in forza di un vecchio orgoglio e di persistenti riserve verso il M5s, immagina un Pd che si ponga nuovamente alla testa della sinistra, tornando ad alimentarsi alla fonte dei suoi valori forti ma declinandoli ora con altri simboli che possano attraversare le coscienze di questo tempo.
Valori e simboli, però, comminano sulle gambe delle pratiche ed è proprio su questo terreno della prassi che quest’altra strategia mostra il suo discutibile realismo. Il Pd – piaccia o no – è ormai un partito dei centri storici, e non sembra proprio realistico gravarlo del compito di tornare alle periferie, nelle fabbriche e nei mercati rionali. In esso continua a raccogliersi in buona parte una borghesia abbastanza garantita e benpensante, che proviene da fasce sociali diverse ma che ha il suo centro di gravità nel lavoro intellettuale e che, perciò, si percepisce ancora come distinta dal popolo e persegue una sua distinta rappresentanza. Cosicché, realisticamente, il Pd non può rifiutargli questa rappresentanza senza rinunciare a quello che è ormai parte rilevante del suo zoccolo duro. Non farebbe bene a sé stesso, ma non farebbe bene neanche alla sinistra.
Un Pd che, invece, curi questo pezzo di mondo un po’ garantito e un po’ benpensante può svolgere un ruolo cruciale per la sinistra. Ragioni storiche, sociali e politiche mostrano che una sinistra popolare non raggiunge i numeri e la forza per ambire al governo del Paese. Ha bisogno di un’altra gamba su cui poggiare per intraprendere questo cammino.
Quest’altra gamba è – come si diceva un tempo – un “partito di centro che guarda a sinistra”, ma con la compattezza, la schiettezza e la determinazione che – ai suoi tempi – questa categoria politica non esibiva. Il Pd, allora, può divenire il partito che assicura la cruciale alleanza tra quanti rivendicano ridistribuzioni del potere e della ricchezza e quanti, raccolti nelle sue file, per antica memoria, formazione culturale o propensioni spirituali si sentono radicati nei valori della solidarietà e della giustizia sociale e guardano a sinistra.
Dunque, l’idea di un Pd rinnovato che lanci un’Opa sull’elettorato del M5s sarebbe un tragico errore. Come lo sarebbe l’opposta idea di un M5s proteso alla conquista dell’elettorato del Pd. C’è almeno un terzo di elettori, tra astenuti e migrati nella destra, su cui entrambi hanno da lavorare.
Anche se – va detto – una siffatta rifondazione del Pd è tutt’altro che facile: vi è ancora a livello nazionale un personale politico, per lo più reclutato da Renzi e lasciato nel partito per fargli da sponda, che coltiva nel profondo programmi neoliberisti e pulsioni dei salotti buoni, e vi è una folla di dirigenti periferici più interessati agli affari che alla politica, i quali difficilmente rinunzieranno alle contiguità con il potere.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.