Dunque, facciamo il punto. Cina e India non hanno aperto bocca riguardo le annessioni delle quattro province russofone. Anzi, al Consiglio di sicurezza dell’Onu si sono astenute nel voto sulla mozione di condanna. Mercoledì, l’Opec+ – su palese pressione russa come risposta a cap e sanzioni – ha tagliato di addirittura 2 milioni di barili al giorno la produzione di petrolio. Scusate, ma Mosca non era ormai sola, isolata e con le spalle al muro?
Viene da chiederselo, perché alla luce di quanto ottenuto solo negli ultimi sette giorni si stenta a figurare uno scenario che la vedesse invece diplomaticamente in buona compagnia. E per quanto ovviamente questa dinamica passerà in secondo piano sui giornali, questa immagine dimostra come la reazione furibonda della Casa Bianca a quanto deciso dal cartello dei produttori di greggio sia stata ritenuta dal Financial Times invece degna dell’apertura della sua prima pagina di ieri.
Perché per quanto Washington imponga sanzioni e invii armi a Kiev, la Russia è riuscita a creare un asse con l’Arabia Saudita per tagliare la produzione e mettere di fatto con le spalle al muro la Fed. Perché prezzo del petrolio ovviamente destinato a salire significa un bel grattacapo a livello di inflazione energetica. Di conseguenza, chi avesse già prezzato uno stop al rialzo dei tassi dopo i due previsti per novembre e dicembre potrebbe essere costretto a rivedere i suoi piani. In primis, gli shorts sul mercato fossile. Ma soprattutto, le dinamiche dei prezzi dei carburanti alla pompa. In pieno countdown verso le elezioni di mid-term del 6 novembre. E giova ricordare come Ryad sia alleato storico degli Usa Quindi, quanto accaduto mercoledì assume una valenza duplice. Economico-monetaria e geopolitica.
La Russia non è affatto isolata. Semplicemente, muove le pedine quando è certa di poter fare punto. Altrimenti, attende. Perché sa di camminare su un campo minato. E attenzione, perché questa distorsione della realtà è ormai applicabile a tutto. Viviamo in prospettiva. Ad esempio, torniamo a casa nostra e abbandoniamo per un attimo le questioni belliche. Sempre mercoledì si è consumata la prima, drastica incrinatura nell’idillio fra Mario Draghi e Giorgia Meloni. Al netto dello sgarbo istituzionale di non invitare alla cabina di regia sul Pnrr nessun rappresentante di Fratelli d’Italia e Forza Italia, il presidente del Consiglio uscente ha voluto creare subito un bel vulnus: i piani sono tutti puntuali nella loro attuazione, tanto che – in effetti – l’Europa ha versato anche la seconda tranche di quanto dovuto al nostro Paese. Diametralmente opposta la visione della Premier in pectore: ci sono gravi ritardi che, ovviamente, verranno imputati al Governo entrante. Ereditiamo una situazione difficile, le sue parole.
Anche qui, chi ha ragione? Qual è la prospettiva reale e quella ideologica o, semplicemente, di comodo? Una cosa è certa, una sola: la presunta prova del nove messa in campo da Mario Draghi è ridicola. Per il semplice fatto che la sua moral suasion su Bruxelles nell’ultimo periodo, quello dell’esborso dei fondi, era rafforzata dal jolly che poteva giocarsi al tavolo delle richieste. Avendo perso su tutta la linea la battaglia del price cap, qualcosa gli era dovuto nell’ottica degli equilibri. Insomma, il Governo italiano può tranquillamente aver trattato a porte chiuse su garanzie future. Perché senza quei fondi, le casse erano vuote. Basti ricordare l’operazione di raschiamento terminale del barile messa in campo per il nuovo DL Aiuti, quello legato al caro-bollette. Questo Giorgia Meloni dovrebbe chiedere al suo predecessore, se davvero avesse preso atto di clamorosi ritardi nell’attuazione del Pnrr: quali accordi sottobanco hai preso con Bruxelles, quali cambiali sono state sottoscritte e che io mi troverò obbligata a onorare, una volta giunte a scadenza?
Il problema è che più ci si addentra nella situazione, più occorre fare ricorso alla psicanalisi. Perché quando trova consistenza e credibilità il possibile sì di Fabio Panetta alla guida del Mef, dopo un no apparentemente irrevocabile di soli dieci giorni fa, è l’intera impalcatura del In Europa è finita la pacchia a crollare miseramente. Perché se esiste un apologeta della dipendenza italiana dalla Banca centrale, un cantore ispirato degli acquisti senza fine di bond, un uomo dall’approccio unidirezionale alla risoluzione di tutti i problemi è proprio Fabio Panetta. Insomma, come si può conciliare un’Italia sovranista con un ministero-chiave affidato a chi – giustamente, in punta di realismo – vede nella Bce e nel suo ruolo strutturalmente salvifico la stella polare?
Perché Giorgia Meloni, dopo aver presentato le prove dei presunti ritardi nell’attuazione del Pnrr, non ammette di fronte al suo elettorato che, non solo i tecnici ci saranno, ma anche che senza Eurotower la nostra sostenibilità debitoria è a rischio immediato? Perché questo è ciò che pensa e sa, se ritiene giusto affidare il Mef a Fabio Panetta, pur avendo in casa Giulio Tremonti. Non si può continuare a sfuggire alla realtà. Non foss’altro perché tutti i riflettori sono già puntati sull’Italia, basti pensare al tempismo di Moody’s nel minacciare il declassamento dei nostri Btp a junk, proprio in caso di mancata attuazione di riforme e Pnrr. Strano tempismo, non vi pare?
Ma si sa, le coincidenze in questo Paese si sprecano. Da sempre. Almeno dal 1992. La realtà è molto diversa dalla proiezione di essa che noi sbirciamo dal buco della serratura dei media. E per quanto si voglia ricorrere alla formula del non interventismo istituzionale, la postura da desaparecido del Quirinale in questa delicatissima transizione fa riflettere. Come deve far riflettere la scelta del New York Times di sparare un siluro a freddo contro Volodymir Zelensky, proprio mentre l’esercito ucraino starebbe riconquistando posizioni a tempo di record: l’atroce attentato in cui ha perso la vita la figlia del filosofo Dugin sarebbe stato organizzato direttamente dal Governo di Kiev. Tradotto, il Deep State ha capito che la situazione sta diventando troppo complessa e seria per essere lasciata in mano a un uomo come Joe Biden. E comincia a inviare segnali. Come la minaccia di Moody’s. Come i rialzi dello spread a orologeria. Come i segreti di Pulcinella dietro al Pnrr, i cui piani non possono essere contemporaneamente in ordine e in clamoroso ritardo.
Qualcuno mente. O forse nessuno. Perché di reale c’è ben poco, se non un Paese che non reggerà economicamente all’impatto di un in inverno di razionamenti che saranno molto più drastici e duri di quanto ci hanno prospettato. Chissà quanto durerà il prossimo esecutivo? Forse giusto il tempo di far riassemblare le truppe a chi oggi sta avvelenando i pozzi, prima della ritirata strategica.
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