Poco prima del finale, Maigret prende un’altra piega rispetto all’andamento avuto fino ad allora: il commissario interpretato da Gerard Depardieu sembra dimenticarsi del caso su cui sta lavorando, si interessa a una ragazza, importante testimone in quel caso. Le fa da padre, lui che una figlia non l’ha potuta avere perché è morta poco dopo la nascita. Anche Depardieu ha perso un figlio e quel senso di parziale riscatto dal dolore lo vediamo. In una scena, Maigret sta educando la ragazza a sembrare un’altra, per fare da esca all’assassino, ma sembra voler creare l’immagine della figlia che non ha mai avuto, l’affetto assume sfumature inquietanti, pare quasi un omaggio alla necrofilia de La donna che visse due volte. Questa digressione è un segno piuttosto interessante con cui il regista Patrice Leconte spezza la gabbia del giallo, del mistero poliziesco che il personaggio di Simenon incarna nelle sue variazioni più umaniste.
Il caso su cui opera il poliziotto è quello di una giovane ragazza, povera ma uccisa in un costoso abito di sartoria, e le indagini riveleranno molto del suo passato, della sua solitudine, di chi frequentava e delle sue aspirazioni. Leconte e lo sceneggiatore Jérôme Tonnerre stravolgono il romanzo Maigret e la giovane morta per farne un ritratto della borghesia al nero che guardi a certi noir di Chabrol, almeno per l’ambientazione.
Il vero centro di interesse del film resta soprattutto l’interpretazione di Depardieu, la sua caratterizzazione del celebre poliziotto dopo una serie di illustri precedenti, da Jean Gabin a Gino Cervi, da Rowan Atkinson a Sergio Castellitto, e non perché il film sia uno spettacolo solista dell’attore, ma perché Leconte decide di prenderlo a metro dell’intero film, di costruire ritmo, tono e andamento sul suo passo stanco, sulla sua gestualità solenne e affaticata, sul dolore che sembra percorrerlo sottilmente dentro ogni movimento o respiro, lontano dalla bonarietà un po’ brusca dei suoi interpreti più celebri.
Questo passo permette al film di esplorare i suoi personaggi in modo soddisfacente nonostante la breve durata (meno di un’ora e mezza), perché consente al racconto e allo spettatore di soffermarsi, di cogliere le sfumature, di afferrare l’essenza del giallo per Simenon, ossia scoprire l’umano e il bestiale dentro la quotidianità, la morte e il delitto non sono un evento nell’orizzonte di Maigret, ma ciò che gli dà da vivere e che sa far parte dell’animo umano. Il peso di Depardieu nel film sembra provenire da questa consapevolezza.
Quasi a non voler spaventare lo spettatore “moderno”, giovane o semplicemente abituato alla visione del piccolo schermo o dello streaming, Leconte cerca un ammodernamento costante, chiedendo al direttore della fotografia Yves Angelo di tenere la macchina sempre in spalla, in costante, seppure minimo, movimento, usando brevi e rapidi zoom per avvicinarsi o allontanarsi dagli attori, come a volerli costantemente ridiscutere, metterli in nuovi quadri o prospettive, quasi a mimare la soggettiva di Maigret.
Sono tocchi che però stonano, nel loro evidente tentativo di aggiornamento ai tempi (fuori tempo, visto che tecniche simili erano tipiche di fine anni ’90), che contraddicono le immagini, i colori, le nuance malmostose e melanconiche del protagonista, bravissimo nell’aprire di fronte allo spettatore parentesi di sconforto, filtri da cui l’integrità dell’uomo di legge fa spazio alla fragilità dell’uomo, del marito, del padre.
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